Il dibattito

Reddito di cittadinanza: così cadono le obiezioni liberiste

Il via libera della Commissione Ue si può avere, le distorsioni sul mercato del lavoro ci sono con ogni politica pubblica. E introdurlo sarebbe l’occasione per riformare il welfare

Di Giovanni Scarano *
28 Marzo 2018

Oscar Giannino, in un articolo sul Messaggero, ha criticato le proposte del Movimento 5 Stelle sul reddito di cittadinanza. Poiché le tesi di Giannino sono emblematiche dell’armamentario polemico della maggior parte degli alfieri delle politiche neoliberiste, è interessante analizzare i tre elementi principali della sua critica. L’insostenibilità finanziaria è suggerita mediante il ricorso a stime di costo effettuate da Roberto Perotti nel contesto di uno scenario “massimo”. Ma la proposta di “reddito di cittadinanza” non solo non è espressamente contenuta nei 20 punti del programma di governo del Movimento 5 Stelle, ma le formulazioni possibili non sono ancora specificate in modo definitivo in nessun documento ufficiale. Perotti seleziona però tutte le possibili condizioni ipotetiche più onerose per la finanza pubblica e giunge a fornire stime di costo di 45 miliardi di euro.

Le possibili distorsioni sul mercato del lavoro sono comuni a tutte le forme di intervento pubblico che negli altri Paesi dell’Ue cercano di contrastare gli effetti sociali negativi e pericolosi per la coesione, dovuti ai “fallimenti del mercato”. Ma forse gli alfieri del libero mercato pensano che se i salari di equilibrio del mercato sono al di sotto dei minimi vitali, basta aspettare che muoia di fame un numero sufficiente di lavoratori per riportare la realtà a coincidere con i loro modelli teorici.

Il terzo elemento è costituito di critica riguarda i vincoli posti dagli accordi europei alla creazione di disavanzi di bilanci. La tesi di Giannino è che il complicato quadro europeo, dovuto alla Brexit e all’opposizione di nove Paesi membri alla linea dell’asse franco-tedesco, riduce i margini di disponibilità europea nei confronti dell’Italia. Ma proprio le difficoltà della linea di politica economica europea e i problemi crescenti di consenso e di tenuta interna possono aprire, se ben gestiti, nuovi scenari d’azione. L’Italia non è la Grecia, per quanto concerne i rapporti di forza.

Gli alfieri delle politiche neoliberiste hanno utilizzato fino a oggi il vincolo esterno europeo come uno strumento di pressione interno per compensare la loro scarsa capacità di conquistare consenso nell’elettorato italiano. Ma ciò che ci chiedono l’Europa e i cosiddetti “mercati” è esattamente ciò che alcuni gruppi d’interesse nazionali vogliono nel proprio interesse particolare.

Il loro risultato empirico di queste politiche neoliberiste è la più grande crisi finanziaria del dopoguerra, la tendenza alla stagnazione dei Paesi di antica industrializzazione, l’aumento della disoccupazione, l’impoverimento dei ceti medi e una netta redistribuzione del reddito e della ricchezza a favore di gruppi d’interesse minoritari. È quindi ovvio che questi gruppi siano interessati al mantenimento delle linee di politica neoliberiste, ma è altrettanto evidente che trovano sempre meno consenso e quindi devono appoggiarsi a fattori di pressione esterni.

Premi Nobel non sospetti di tendenze populiste, come Jean Tirole, sono pienamente consapevoli che le ricette neoliberiste si basano su modelli economici in gran parte fondati su ipotesi che poco rispecchiano le caratteristiche dei sistemi economici reali, quali il comportamento ottimizzante di agenti razionali, la concorrenza perfetta, la completezza dei mercati e l’assenza di problemi di agenzia o di asimmetria informativa. E la proposta del reddito di cittadinanza è equivalente alla “imposta negativa” caldeggiata dai padri del pensiero liberista Friedrich von Hayek e Milton Friedman.

Ma la proposta di reddito di cittadinanza nel programma del Movimento 5 Stelle non è un vero reddito di cittadinanza. Si tratta piuttosto di un “reddito minimo garantito condizionato”: un istituto presente, con modalità e importi differenti, in tutti i paesi dell’Ue, con l’eccezione della Grecia (dove è applicato solo in via sperimentale), e che in Italia ha cominciato a essere accennato con il reddito d’inclusione.

Il clamore mediatico dopo le elezioni sul tema del reddito di cittadinanza è quindi spiegabile solo con il tentativo di screditare il voto meridionale pentastellato, qualificandolo come richiesta di assistenzialismo retrò, e di insinuare una scarsa credibilità di governo del Movimento 5 Stelle, legata all’insostenibilità finanziaria del programma.

Una discussione seria sul reddito minimo garantito in Italia sarebbe inoltre un’ottima occasione per ristrutturare e semplificare tutto il sistema assistenziale nazionale, che presenta già oggi notevoli flussi di trasferimenti, pari, in percentuale del Pil, a quelli dei Paesi in cui esiste un reddito minimo garantito. Il problema italiano è che questi trasferimenti avvengono attraverso canali opachi e discrezionali, alimentando comportamenti e clientele care al sistema politico nazionale.

* docente di Politica economica all’Università Roma Tre

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