Non il solito regalo di Natale ma un racconto necessario dalla voce dei “mezzi vivi” di Gaza
“Dicono di voler eliminare Hamas e poi li vedi bombardare ambulanze, tende, centri per gli sfollati, scuole e ospedali”. (Saja’ Yaser Saleh, 23 anni, sopravvissuta a un bombardamento israeliano a Deir al-Balah, Striscia di Gaza)
Mi rendo conto che non sia il consiglio più adatto per un convenzionale regalo di Natale. Ma leggere La vostra presenza è un pericolo per le vostre vite (Sellerio), le voci da Gaza raccolte in un centro di cura e riabilitazione in Qatar da Samar Yazbek, è necessario in un momento nel quale, dopo averlo negato per due anni, molti dicono che ora è inutile e superato parlare del genocidio israeliano nella Striscia di Gaza, che è invece tuttora in corso.
Yazbek, già autrice di “Passaggi in Siria” e “Diciannove donne”, pubblicati dallo stesso editore, condivide con le persone di cui ha raccolto le voci la medesima sensazione: la sua, di un orrore che ha superato persino quello del conflitto siriano, nel quale era stata usata solo la crudeltà umana e non anche – come invece ha fatto l’esercito israeliano – la tecnologia dei droni quadricotteri e l’intelligenza artificiale; e quella delle 27 persone palestinesi delle quali ha trascritto le parole, senza fare alcuna modifica, persone nate e cresciute con la guerra “ma questa non è una guerra, è un’altra cosa”, dicono tutte: un genocidio, per l’appunto.
I racconti sono riferiti agli ultimi tre mesi del 2023 e ai primi del 2024, quelli successivi ai crimini di guerra e contro l’umanità commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi il 7 ottobre.
Si inizia con la descrizione di un’alba “normale”, come può essere “normale” ogni inizio di giornata nella Striscia di Gaza: quella del 7 ottobre 2023, “prima del quale la mia vita era un paradiso” (Abdalrahman Iyad Abu Hamde, 17 anni). Ci si prepara per le attività quotidiane: un lavoro, per chi ce l’ha; la scuola, l’università, la gestione della casa, la spesa. Poi, i suoni dei razzi: dalla Striscia di Gaza, questa volta e non in direzione contraria. L’immediata sensazione che stia iniziando un periodo terribile, le prime discussioni e decisioni su dove spostarsi, dove cercare un luogo sicuro salvo scoprire presto che da bersagli fissi si diventerà solo bersagli in movimento.
I racconti proseguono con l’attesa, come in un destino già segnato, dalla risposta israeliana: dove e con chi si era quando è arrivato il primo missile? Manca, in molti casi, la descrizione delle prime conseguenze dei bombardamenti: semplicemente, perché le persone sopravvissute restano, a lungo svenute, intrappolate tra le macerie.
I racconti proseguono con l’esperienza negli ospedali ed è questa la parte più drammatica: luoghi di morte, di ricerca dei propri cari tra i cadaveri, di dolore e di urla da parte delle persone sopravvissute, di incredibile dedizione al lavoro da parte del personale medico.
Soprattutto, luoghi dove il genocidio si è rivelato in tutta la sua dimensione: ospedali bombardati e assaltati uno dopo l’altro dall’esercito israeliano, pazienti e personale medico picchiati, umiliati, denudati e spesso uccisi, anche donne incinte sparate alla pancia; pazienti intrasportabili costretti a essere trasferiti da un ospedale all’altro e da questo a un altro e da un altro a un altro ancora, sempre verso sud, senza poter ricevere cure perché manca di tutto, sballottati su ambulanze che zigzagano tra i crateri delle bombe, fermati al posto di blocco del corridoio di Netzarim, fatti scendere (l’espressione è impropria trattandosi di persone che non potevano muoversi), costretti ad alzare le mani (tutti: anche coloro cui erano state amputate le braccia), perquisiti, picchiati o uccisi.
I “mezzi vivi” sono persone che hanno perso non solo decine di parenti (figli, mogli, mariti, nipoti, cugini, zii) ma che esse stesse hanno perso braccia o gambe, in alcuni casi entrambe: sepolte insieme ai corpi carbonizzati, ai resti maciullati dei corpi.
“Sono sopravvissuta, ma il mio cuore è morto”, dice Wafa’ Assad Abu Seeman, 28 anni, di Beit Lahia.
Il genocidio è un processo, che ha un prima e un dopo. Questi sono i racconti del dopo, di persone per le quali il genocidio non è finito e chissà se e quando finirà.
