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La lotta alla droga di Trump? Colpisce solo i governi non allineati e grazia gli amici: dal Venezuela al Perù, il doppio standard Usa

L'ultimo attacco nei confronti del presidente colombiano Gustavo Petro, denunciando che "la Colombia produce molta droga" ed è "meglio che si svegli o sarà la prossima", dopo Caracas s'intende, già nel mirino del Dipartimento di Stato perché presumibilmente "governata dal Cartel de los Soles"
La lotta alla droga di Trump? Colpisce solo i governi non allineati e grazia gli amici: dal Venezuela al Perù, il doppio standard Usa
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Mentre le tensioni con il Venezuela raggiungono l’apice – con l’ultimo sequestro della petroliera Skipper al largo del Paese sudamericanoDonald Trump torna a minacciare il presidente colombiano, Gustavo Petro, denunciando che “la Colombia produce molta droga” ed è “meglio che si svegli o sarà la prossima”, dopo Caracas s’intende, già nel mirino del Dipartimento di Stato perché presumibilmente “governata dal Cartel de los Soles“. Ma non solo. Trump parla di “fabbriche“, dice che la Colombia vende direttamente la cocaina agli Usa e dice che Petro “avrà seri problemi se non se ne rende conto”, accusandolo di essere piuttosto ostile. Nulla di nuovo sotto il sole, bensì la piena continuità delle operazioni anti-narcos lanciate lo scorso 21 agosto, con raid nei Caraibi che hanno provocato più di 80 vittime e “minacce di operazioni di terra” a tutela del territorio federale.

Il doppio standard

Ma c’è qualcosa che non torna nelle operazioni anti-narcos di Trump, ora intitolate South Spear: vi è un massiccio apparato militare dispiegato contro governi non allineati – come il Venezuela e la Colombia – compensato da un atteggiamento accomodante nei confronti delgoverno conservatore del Perù, il secondo produttore di cocaina al mondo – oltre 54.655 ettari produttivi -, ritenuto “il granaio del sud”, con “laboratori clandestini in fase di moltiplicazione”, e della Bolivia, ora sotto il governo di Rodrigo Paz, che nel 2023 ha battuto il record di sequestri di carichi pari a oltre 32,9 tonnellate. Trump tace anche sulla situazione in Ecuador, non di certo migliorata sotto il governo del suo delfino Daniel Noboa, dove passa il 70% della cocaina che circola a livello mondiale. Le stesse autorità venezuelane hanno più volte chiesto agli Stati Uniti di porre più attenzione sulla droga che esce da Quito attraverso il Pacifico. Tuttavia, qualche settimana fa, alla vigilia del referendum sulle basi militari Usa in Ecuador, il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, ha speso parole di elogio nei confronti di Noboa definendolo “un esempio nella lotta al narcoterrorismo”.

L’ex presidente “narco”, ma amico

Ma non c’è soltanto l’accondiscendenza nei confronti degli Stati amici. Il doppio standard dell’amministrazione Trump nella presunta lotta al narcotraffico si svela anche in interventi diretti nei Paesi da conquistare, anche condizionandone il voto, com’è il caso dell’Honduras. Poco prima dell’apertura dei seggi a Tegucigalpa, Trump ha concesso la grazia all’ex-presidente honduregno Juan Orlando Hernández, condannato nel 2024 da un Tribunale federale per aver favorito il traffico di droga negli Stati Uniti. Trump ha giustificato la sua scelta incolpando Joe Biden di aver messo in pratica “un’orribile caccia alle streghe” e di aver trattato troppo male Hernández. In fondo, però, l’intenzione era quella di favorire il candidato conservatore Nasry Tito Asfura, candidato presidenziale del Patito nazionale dell’Honduras – lo stesso di Hernández – paradossalmente definito dal tycoon “l’unica alternativa al narcoterrorismo“.

A questo punto c’è un cortocircuito nella logica anti-narcos di Trump, criticato anche sul fronte repubblicano, con il senatore Bill Cassidy che si è chiesto: “Perché diamo la grazia a Hernández e poi perseguitiamo Maduro per il traffico di droga negli Stati Uniti?”. Sulla stessa sponda il senatore Thom Tillis ha aggiunto: “È confuso dire, da una parte, che dovremmo valutare pure l’invasione del Venezuela per il traffico di droga e, dall’altra, rilasciare qualcuno” già condannato per narcotraffico.

Il riassetto del continente

In assenza di criteri oggettivi nella lotta ai narcos, che si sta dimostrando selettiva a seconda dell’interlocutore, c’è chi comincia a mostrarsi sempre più critico nei confronti dell’amministrazione Usa. “La missione antinarcotici, per lo meno in termini di narrazione, sembra molto più selettiva e motivata da ragioni politiche”, afferma Rebecca Bill Chávez, Ceo di Inter-American Dialogue. Più critico ancora Christopher Sabatini, senior fellow per l’America Latina presso Chatam House, per il quale “non si tratta della guerra contro le droghe”, ma di “partitismo” e “alleati” al fine di “forzare gli altri governi della regione” perché sostengano Trump. Pur nella consapevolezza generale, le organizzazioni internazionali non si mostrano in grado di contrastare lo strapotere trumpiano, il cui ritorno alla Dottrina Monroe è messo nero su bianco. Qualche timido accenno è stato fatto mercoledì dall’Alto commissario Onu per i diritti umani, Volker Türk, che ha chiesto una “de-escalation” fra Caracas e Washington.

Vi è anche una coincidenza sospetta con gli eventi di Oslo, dove è stato consegnato il Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado. Il presidente del Comitato del Nobel, Jørgen Watne Frydnes, ha invitato apertamente, forse per la prima volta nella storia del riconoscimento, un capo di Stato a dimettersi, incassando le proteste di circa 21 associazioni pacifiste vicine al premio. Droga o meno, qualcuno ha deciso di smuovere le carte in America Latina: dal Venezuela, raccontato come “grande malato”, al resto del continente.

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