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Lo choc e le domande dopo la strage di Bondi beach. Ma l’Australia può dare il buon esempio

Troppo spesso sento nei dibattiti italiani la chiamata alle armi per difendersi dalla violenza dilagante nel paese. E’ questa la soluzione? Credo proprio di no
Lo choc e le domande dopo la strage di Bondi beach. Ma l’Australia può dare il buon esempio
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A 24 ore dal massacro di Bondi Beach a Sydney, che ha sconvolto l’intero paese, siamo ancora increduli e pieni di domande senza risposta. Abbiamo l’impressione di vivere in una comunità felice qui in Australia, dove la narrativa predominante è che il nostro paese è fiorito sul multiculturalismo ed ha offerto un’isola felice e sicura a persone provenienti dai più svariati paesi ed esperienze di vita.

La comunità vietnamita, qui molto numerosa, è figlia del massiccio esodo avvenuto durante la guerra tra Nord e Sud ed il successive intervento americano. Persino le comunità italiane e greche, anch’esse alquanto numerose, sono figlie dell’emigrazione durante e post la Seconda guerra Mondiale. Ed in linea di massima l’Australia è riuscita a tenere fuori dai confini del paese le tensioni razziali, evitando in tal modo significativi episodi di violenza di matrice etnica o religiosa.

Per questo non riusciamo a capacitarci. Ci risulta difficile immaginare la scena di un padre e figlio che, dopo aver prestato giuramento di fedeltà all’Isis ed aver detto a casa di assentarsi qualche giorno per una battuta di pesca, imbracciano il fucile e sparano all’impazzata sulla folla radunatasi in quella che è probabilmente la spiaggia più famosa ed iconica di tutto il paese.

Ma forse ci illudiamo di essere ancora un’isola incontaminata, dopo che non più tardi di 18 mesi fa vi fu un altro attentato, non lontano da Bondi Beach, dove morirono 7 persone. Nonostante qui nessuno voglia diventare una succursale del Far West che va spesso in onda negli Stati Uniti, procurarsi un’arma è ancora relativamente facile in Australia.

Per questo il governo si è riunito in seduta straordinaria per discutere come cambiare le leggi sul possesso di armi da fuoco e renderne più difficile l’acquisizione. Passo dovuto in un paese che, dopo l’attentato di Port Arthur nel 1996 dove morirono 35 persone (ad oggi il peggiore omicidio di massa mai avvenuto in Australia), decise di imboccare una strada virtuosa e non di vendetta, ponendo immediatamente forti restrizioni al possesso di armi da fuoco.

Troppo spesso sento nei dibattiti italiani la chiamata alle armi per difendersi dalla violenza dilagante nel paese (spesso causata dai soliti noti immigrati, a sentire certi partiti di governo…). E’ questa la soluzione? Credo proprio di no. Bisogna puntare, per quanto difficile, doloroso ed a lungo termine, ad un processo di convivenza civile e comprensione ed accettazione delle differenze, e lavorare insieme per costruire e consolidare una società dove tutti si sentano legittimati ad esprimere il proprio parere e le proprie idee politiche e religiose, senza rischiare la pelle.

Chi ci governa dovrebbe dare il buon esempio, creando ponti di dialogo inter-culturale ed inter-religioso e non fomentando divisoni. Per questo trovo francamente irricevibile la posizione espressa oggi da Netanyahu, che ha accusato il primo ministro australiano Anthony Albanese di essere in parte corresponsabile di questa tragedia, avendo legittimato il diffondersi dell’antisemitismo nel paese solamente per il fatto che il governo australiano ha deciso di riconoscere ufficialmente lo stato di Palestina.

La comunità ebraica è stata colpita a morte da due pazzi estremisti che non avevano rispetto per le idee e valori religiosi altrui, e l’uscita del primo ministro israeliano contribuisce al perpetuarsi della stessa dinamica, quella di trattare il diverso come nemico. E purtroppo la storia insegna che tale propaganda, messa nelle mani di squilibrati, termina spesso con tragedie come quella di ieri a Bondi Beach.

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