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Pace tra Rwanda e Congo, così gli Usa hanno provato a limitare il dominio cinese sulle miniere

La traballante intesa sta già facendo discutere. Non solo perché, dopo la firma del 4 dicembre, nella regione orientale del Congo sono ripresi i combattimenti con il M23. Le condizioni imposte dal presidente americano ai due Paesi rivali richiedono al governo di Kinshasa gravose concessioni con un forte impatto sull’industria mineraria congolese

Come dicono gli anglosassoni, “il Diavolo si nasconde nei dettagli”. E i dettagli nell’accordo di pace mediato da Donald Trump tra il Rwanda e la Repubblica Democratica del Congo (RDC) non mancano davvero. Più che il Diavolo, però, tra le righe del documento si intravede la sagoma del Dragone cinese. La traballante intesa sta già […]

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Come dicono gli anglosassoni, “il Diavolo si nasconde nei dettagli”. E i dettagli nell’accordo di pace mediato da Donald Trump tra il Rwanda e la Repubblica Democratica del Congo (RDC) non mancano davvero. Più che il Diavolo, però, tra le righe del documento si intravede la sagoma del Dragone cinese. La traballante intesa sta già facendo discutere. Non solo perché, dopo la firma del 4 dicembre, nella regione orientale del Congo sono ripresi i combattimenti con il M23, il gruppo separatista sostenuto da Kigali. Le condizioni imposte dal presidente americano ai due Paesi rivali richiedono al governo di Kinshasa gravose concessioni con un forte impatto sull’industria mineraria congolese. Settore che conta per oltre la metà del Pil nazionale.

Tralasciando i risvolti legati alla spinosa ingerenza di Washington nella sovranità della RDC, il “trattato ineguale” concertato da Trump riguarda molto da vicino anche la Cina. Ad oggi sono almeno una quindicina le miniere operative e oltre trenta i siti minerari in varie fasi di sviluppo (esplorazione, costruzione e produzione) controllati o partecipati da aziende cinesi. Se si restringe la lente solo sulla raffinazione del cobalto, il coinvolgimento della Repubblica popolare riguarda ben il 90% del comparto. Anche se quanto estratto proviene da giacimenti a gestione mista o artigianale.

Sono progetti che la Repubblica popolare ha coltivato nell’ultimo decennio per aggiudicarsi i materiali critici indispensabili nella transizione energetica. Lo ha fatto sfruttando proprio l’America First del primo mandato Trump. Fiutando lo scetticismo del tycoon sul cambiamento climatico, tra il 2016 e il 2017 il gigante minerario statunitense Freeport ha ceduto a un consorzio guidato dalla statale China Molybdenum Co. la sua partecipazione nella Tenke Fungurume, consegnando in mani cinesi una delle miniere di rame e cobalto più grandi al mondo.

Oggi The Donald non è più sensibile ai problemi ambientali di quanto non lo fosse all’epoca. Ma la competizione tecnologica con Pechino sembra aver indotto la Casa Bianca a cambiare strategia. Per comprendere la portata della manovra trumpiana bisogna riprendere in mano l’accordo. Le clausole nel testo sono numerose ed estremamente restrittive: la RDC dovrà individuare i giacimenti più promettenti – quelli già in esplorazione o ancora da assegnare – e inserirli in una lista speciale, la Strategic Asset Reserve (SAR), riservandoli in via prioritaria a imprese statunitensi e ai Paesi “allineati”. Provvedimento che impedisce a un’azienda congolese o straniera di vendere i propri asset a un gruppo cinese, se il progetto è inserito nella SAR. La RDC dovrà inoltre informare ogni tre mesi l’ambasciata USA di qualsiasi accordo relativo all’esportazione di minerali.

Le vendite non potranno più essere decise autonomamente da Kinshasa, dovranno sempre tener conto degli interessi americani. La gestione dei giacimenti SAR sarà affidata a un comitato congiunto che deciderà per consenso, ma con gli Stati Uniti a godere del potere di veto. Come se non bastasse, il governo congolese è chiamato a rivedere le proprie quote minoritarie nei progetti strategici, così da facilitare l’ingresso di investitori americani. Mossa che potrebbe aprire la porta a Washington anche in miniere oggi quasi interamente cinesi, come Tenke. In sostanza, mentre la Cina continuerà a gestire i progetti già esistenti, le nuove misure rendono un’espansione nei giacimenti della RDC quasi impossibile.

È una vera manovra a tenaglia quella ordita dall’amministrazione Trump, già impegnata attivamente nello sviluppo del “corridoio di Lobito. Progetto che punta a resuscitare la vecchia via commerciale che all’inizio del XX secolo collegava le ricche regioni minerarie del Katanga nella Repubblica Democratica del Congo e della Copperbelt in Zambia al porto angolano di Lobito. Lanciato da Joe Biden – e abbracciato dall’Unione europea con un investimento di 2 miliardi di euro – il piano prevede di rimodernare la ferrovia di Benguela, arteria vitale per il trasporto di materie prime (in particolare rame e cobalto) verso la costa atlantica e i mercati internazionali.

Secondo il Ministero degli Esteri italiano, il Corridoio – parte del Piano Mattei – “diventa così una valida alternativa ad altri progetti, consentendo sia all’Ue sia agli Stati Uniti di rafforzare i propri legami con l’Africa e al contempo di facilitare l’accesso alle materie prime critiche necessarie per la transizione energetica globale”. Dove per “altri progetti” si intendono chiaramente quelli di Pechino.

Insomma, dopo innumerevoli promesse disattese, finalmente Washington e Bruxelles sembrano fare sul serio. Sembrano, appunto. “Sono quindici anni che gli Stati Uniti dicono di voler raggiungere la Cina in Congo, ma non è successo nulla di concreto. Quindi non ci spero molto che questa volta sarà diverso”, commenta a Ilfattoquotidianoi.it Eric Olander, cofondatore di The China Global South Project.

Arginare l’espansionismo cinese in Africa non sarà semplice. Non solo perché, come ammette la Farnesina, “la realizzazione del pieno potenziale del Corridoio di Lobito non è priva di sfide, a cominciare dalla difficoltà a incoraggiare gli investimenti in un’area segnata da una lunga storia di instabilità politica e sociale”. Non solo perché la China Communications Construction Company possiede circa un terzo della multinazionale portoghese incaricata di ristrutturare il collegamento ferroviario. Come spiega Olander, “le aziende minerarie che utilizzeranno il progetto non sono allineate con le priorità di alcun governo. Quindi nulla impedisce alle società della logistica o del mining di portare quei carichi in Cina per la lavorazione. Anzi è molto probabile che accadrà”.

Il fatto è che non basta ottenere la proprietà dei giacimenti. La capacità di raffinazione dell’Occidente non è in grado di sostenere la domanda di minerali essenziali. Sebbene buona parte del rame proveniente dalla RDC sia sufficientemente puro da non necessitare di particolari trattamenti, altri materiali – come il cobalto – richiederanno una maggiore lavorazione. E qual è il paese primo al mondo per capacità di raffinazione? La Cina, ovviamente. Non è un dettaglio trascurabile, soprattutto considerata la competitività di quegli “altri progetti”.

“Costerebbe troppo trasportare il materiale verso ovest, fino a Lobito, e poi spedirlo circumnavigando tutto il Capo di Buona Speranza”, avverte Olander. D’altronde una soluzione più pratica già c’è. Si chiama Tazara: la ferrovia che fece costruire Mao Zedong per collegare i giacimenti dello Zambia e del Congo con le coste della Tanzania. A distanza di oltre cinquant’anni, il presidente cinese Xi Jinping la sta rimettendo in sesto con un investimento da 1,4 miliardi di dollari. La funzione è la stessa di Lobito: trasportare rame e cobalto dalla Copperbelt. Ma in questo caso verso il porto di Dar es Salaam. Ovvero lungo la costa orientale con affaccio sull’Oceano Indiano. “Nei prossimi dieci anni assisteremo a un duello molto interessante tra le due ferrovie – conclude Olander – dato che è rivolta a est ed è considerata parte integrante dell’ecosistema logistico cinese, io punto tutto sulla Tazara”.