“Lasciate che vi porti tra i campi della Palestina. La terra degli ulivi, dei campi di grano e dei profeti. Una terra che dovrebbe essere di pace, è diventata un luogo dove gli agricoltori della Cisgiordania vengono privati dei loro diritti, della loro acqua e del loro futuro”. Di fronte ai componenti della commissione Esteri e Difesa del Senato, presieduta dalla forzista Stefania Craxi, a prendere la parola è Ziad Anabtawi, Ceo e fondatore di Al’Ard Group, multinazionale di Nablus diventata negli anni sinonimo di eccellenza nell’attività di produzione e fornitura di prodotti agricoli e alimentari palestinesi di alta qualità, a partire dall’olio d’oliva, con una presenza capillare nei mercati locali e internazionali. “Esportiamo verso 22 Paesi in tutto il mondo. Nonostante le difficoltà dovute all’occupazione, siamo diventati una realtà di successo. Io ho sviluppato e continuato questa attività da mio padre. Ora i miei figli rappresentano la terza generazione in azienda”, racconta Anabtawi al Fattoquotidiano.it, al termine dell’audizione a Palazzo Madama. La replicherà a Montecitorio, ma il suo programma a Roma prevede anche incontri con parlamentari Pd, Avs e M5s. Ovvero, i gruppi d’opposizione che nei due anni di genocidio israeliano a Gaza hanno portato avanti in Parlamento le istanze palestinesi.
Roma è l’ultima tappa di un tour di advocacy per Anabtawi, che ha toccato sei capitali europee. Un viaggio alla quale ha preso parte una delegazione di imprenditori, ricercatori e professori, accompagnati da Oxfam, per sensibilizzare politica e opinione pubblica sugli effetti dell’occupazione nei Territori palestinesi occupati. L’organizzazione infatti ha lanciato una campagna per chiedere ai governi europei di sospendere il commercio con gli insediamenti dei coloni ( SI PUO’ ADERIRE A QUESTO LINK) “All’alba un contadino palestinese si sveglia per prendersi cura dei suoi ulivi. Ma sulla collina di fronte c’è un colono che lo guarda non come un vicino, ma come un ostacolo all’espansione”, racconta. Poi, al Fattoquotidiano.it spiega cosa significa oggi cercare di fare impresa in quelle terre: “Per i palestinesi la raccolta delle olive è come una festa: tutta la famiglia partecipa alla raccolta, sono momenti in cui si condivide vita e lavoro, si mangia e si passa il tempo assieme. Oggi sono 100mila le famiglie in Cisgiordania che si occupano di questa attività”. Eppure, spiega, lavorare è diventata un’impresa, a causa delle violenze sistematiche dei coloni israeliani contro le comunità palestinesi. “L’ultimo anno è stato un incubo: sono aumentate le restrizioni e il numero degli insediamenti illegali. I coloni confiscano le terre dei palestinesi, distruggono i terreni e i loro alberi da frutto, sradicano gli uliveti. E le aggressioni fisiche e gli atti di persecuzione sono ormai quotidiani”.
Tutte le forme di annessione sono vietate dalle norme del diritto internazionale, allo stesso modo come non è permesso il trasferimento da parte della potenza occupante di una parte della propria popolazione civile nel territorio che essa occupa. Ma da anni Israele non rispetta alcun vincolo di legge. Sono 700mila i coloni israeliani che vivono illegalmente in oltre 156 insediamenti e 250 “avamposti” in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Avamposti formati senza autorizzazione formale da parte del governo israeliano, ma con il suo tacito sostegno. E poi in seguito riconosciuti da Tel Aviv. Lo scorso maggio il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu ha deciso la la creazione di altri 22 insediamenti nella West Bank. Ma a questo si devono aggiungere anche muri e cancelli: oltre mille barriere, secondo l’Anp, erette dopo il 7 ottobre 2023, presidiate dai militari, che rendono impossibile la vita quotidiana dei palestinesi.
“In questo scenario di occupazione le olive del colono raggiungono liberamente i mercati internazionali e poi gli scaffali dei supermercati, mentre il raccolto del contadino rimane intrappolato dietro i posti di blocco. Sono un migliaio i check point in Cisgiordania, che rendono un’impresa la mobilità non soltanto delle persone, ma anche delle merci. Di fatto, è impossibile o quasi raggiungere il porto, per esportare il nostro prodotto all’estero. Senza dimenticare i costi proibitivi: possono volerci 2mila dollari per soli 200 chilometri, dalla fabbrica di Nablus al porto di Haifa. Mentre ce ne vogliono poco più, 3500 dollari, per la spedizione dei container da Haifa ad Amburgo, in Germania, dove il tragitto è però di oltre 3mila chilometri. Questa non è solo una tragedia umana; è un crimine economico“, sottolinea Anabtawi.
Eppure, nonostante le difficoltà, le vessazioni quotidiane e la lotta impari, “stiamo continuando a vendere i nostri prodotti, richiesti dal mercato internazionale”, rivendica con soddisfazione. Come una forma di resistenza. Servirebbe l’aiuto e la pressione dei governi mondiali ed europei. Ma se l’Unione europea continua ad applicare doppi standard (19 pacchetti di sanzioni alla Russia, nessuno contro Israele, tra veti incrociati e misure proposte a dir poco blande e inefficaci), anche diversi governi e Stati europei continuano a commerciare beni e servizi che finiscono per alimentare e legittimare l’occupazione, gli espropri illegali e le violenze dei coloni.
Per questo nelle scorse settimane è stata Oxfam a lanciare un appello ai governi europei e all’Unione europea affinché si interrompa il commercio con gli insediamenti israeliani in Cisgiordania: “Se fino ad oggi l’Europa non è riuscita ad avere un ruolo politico, speriamo recuperi almeno quella leadership smarrita attraverso la leva economica. L’Ue è il primo partner commerciale di Israele. L’Italia nel 2024 ha scambiato beni e servizi per oltre 4 miliardi di euro. Il nostro governo deve rispettare quanto richiesto dalla Corte di giustizia europea che ha già chiarito l’illegalità dell’occupazione. Serve adottare uno strumento legislativo per impedire relazioni commerciali con i territori occupati e l’adozione in Ue di sanzioni economiche. E chiediamo che in sede europea si sospenda l’accordo di associazione con Israele”, rilancia al Fattoquotidiano.it Paolo Pezzati, di Oxfam Italia.
Ziad Anabtawi invece, nonostante l’immobilismo o quasi dell’Unione europea, rivendica: “L’Europa ha creato la democrazia, la rispetto molto e guardiamo come palestinesi alle sue pratiche di democrazia. Noi siamo in grado di costruire e sviluppare la nostra economia, ma abbiamo bisogno del supporto dell’Europa affinché si interrompa l’occupazione. Il sostegno dei popoli europei e dei giovani per le strade e nelle piazze è stato per noi cruciale, ha dato respiro a Gaza. Ora serve che la politica faccia la sua parte”, spiega. In audizione aveva invece ringraziato quegli Stati europei – tra i quali Spagna, Irlanda, Norvegia, fino alle ultime Francia e Gran Bretagna – che hanno già riconosciuto lo Stato di Palestina. Paesi tra i quali non figura però l’Italia, dato che il governo Meloni prima si è opposto, poi ha vincolato un eventuale riconoscimento a determinate ‘condizioni’, come l’esclusione di Hamas da qualunque ruolo nel futuro governo. Una strategia per prendere tempo e continuare a negare il riconoscimento, avevano attaccato le opposizioni. “Vorrei dire alla vostra presidente del Consiglio di ascoltare la voce che viene dalle strade italiane. Loro hanno già dato il loro sostegno, in modo chiaro. È soltanto una questione di tempo. I cambiamenti arriveranno“, si dice fiducioso. E ancora: “Israele non vuole la democrazia per il popolo palestinese. Sta soltanto ritardando l’unica soluzione possibile, quella dei due Stati. Penso che il governo Netanyahu stia agendo alla cieca, così come chi continua a supportarlo. Ma la giustizia è in arrivo. Non si può fermare”.