
Il 6 dicembre 1990 un MB 326 dell'Aeronautica si schiantò sull'istituto tecnico Salvemini: 12 studenti morti, 88 feriti. Una parte della stampa definì la tragedia "evitabile": non fu così
Quando precipita un aereo militare e le uniche vittime sono i membri dell’equipaggio, la reazione dell’opinione pubblica è abbastanza fatalista: alla fine il pilota (e/o gli altri sul volo) stava facendo il lavoro che aveva scelto, ben conscio dei rischi che correva.
Comprensibilmente tutto cambia quando vi sono vittime innocenti e ignare, colpite a terra dai detriti del velivolo e dall’inevitabile incendio che ne segue. Per fortuna i casi confermati in cui aerei militari precipitati in Italia hanno colpito case provocando vittime civili sono pochissimi e anche poco documentati, a eccezione di incidenti piuttosto rari ma eclatanti come il Cermis, 3 febbraio 1998 (20 vittime) che però costituisce un caso decisamente ibrido in quanto il velivolo militare Usa tranciò i cavi di una funivia causando la caduta delle persone, senza però impattare contro edifici.
Nella storia della nostra Aereonautica Militare dal dopoguerra ad oggi vi sono stati vari “crash” di velivoli militari vicino a zone abitate, talvolta con danni a edifici, ma con poche o nessuna vittima civile anche perché il personale di condotta è addestrato a ritardare l’eventuale lancio fino a che il velivolo in avaria non sia stato diretto, per quanto possibile, verso una zona non popolata e comunque lontano da centri abitati.
Trent’anni fa, nel 1990, l’informazione era molto diversa da come è oggi per ovvi motivi: il web non esisteva, almeno a livello pubblico/civile, e con esso i social e gli smartphone. Oggi qualsiasi evento, dal più banale ai più tragico, è quasi inevitabilmente documentato da una webcam e/o da un cellulare rendendo possibile almeno una prima ricostruzione dei fatti, ancorché rozza e non di rado smentita da altri approfondimenti.
Se esaminiamo gli incidenti aerei dei mesi scorsi, quello di Air India 171 dello scorso giugno e dell’Ups 2976, sono circolati diversi video che nel caso di Air India hanno temporaneamente portato fuori pista i primi analisti; mentre per lo schianto dell’Ups hanno da subito fornito elementi sufficienti a capire la reale dinamica dei fatti.
Ma quella mattina del 6 dicembre 1990, a Casalecchio di Reno, non vi erano webcam o cellulari, e delle condizioni meteo non si hanno notizie dettagliate. Era certamente una brutta giornata invernale, tipica della pianura Padana: basandoci sui dati climatologici storici dell’area bolognese, la temperatura era fra 0°C e 6°C con nebbia, cielo coperto e deboli piogge. Il velivolo, un jet MB 326 detto “macchino”, era già stato sostituito nella flotta dell’Ami come addestratore ed era relegato al ruolo di bersaglio radar e traino maniche per l’artiglieria antiaerea.
Quel giorno la missione dell’MB 326 doveva svolgersi sul poligono E.I. di Foci Reno. Alle 9.48, l’aereo, senza sistemi d’arma o carico bellico, parte da Villafranca per una missione di calibrazione di alcuni sistemi di difesa aerea pilotato dal tenente Bruno Viviani: la missione è quella di volare in una zona aerea tra Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Alle 10.22 il jet inizia ad avere i primi problemi tecnici, costringendo quindi il pilota a richiedere un atterraggio anticipato ma senza dichiarare emergenza. Non ancora.
L’aeroporto più vicino è quello di Ferrara che però non è idoneo, quindi il tenente Viviani decide di dirigersi immediatamente verso l’aeroporto di Bologna.
Alle 10:31 il pilota comunica al controllo di volo che il motore ha “piantato” e preso fuoco: il “macchino” non risponde più ai comandi. Subito dopo Viviani aziona il maniglione del seggiolino eiettabile Martin Baker ed effettua con successo un lancio che si concluderà con lievi lesioni all’atterraggio.
Alle 10.33 l’MB 326, completamente fuori controllo, si avvita e si schianta sulla succursale dell’Istituto Tecnico Commerciale G. Salvemini a Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna. E lo fa, purtroppo, in un orario perfettamente scolastico, centrando la classe 2A: muoiono 12 studenti — undici ragazze e un ragazzo — tutti quindicenni, mentre 88 tra studenti, docenti e personale restano feriti, molti riportando invalidità permanenti.
Così quella mattina di 35 anni fa, la normalità di una serena mattina di scuola si trasformò in un vero incubo, che fece precipitare la comunità locale in un dolore inenarrabile e lasciò tutto il Paese senza parole. Una parte della stampa definì la tragedia “evitabile”. Alle indagini della magistratura seguirono i tre gradi di giudizio con l’accusa di “omicidio colposo plurimo”: condanna in primo grado, prevedibile assoluzione in Appello e Cassazione in quanto il “fatto non costituiva reato”. E a molti potrà sembrare assurdo, ma è così.
La missione, come tutte quelle condotte dall’aeronautica militare, è pianificata e condotta secondo protocolli rigorosi che prevedono ogni evento possibilmente immaginabile. L’aeromobile è sottoposto a controlli tecnici altrettanto rigorosi che ne garantiscono l’assoluta efficienza… a meno di eventi catastrofici che però sono calcolabili in percentuali quasi infinitesimali. È esattamente quello che succede per i voli di linea: la probabilità di morire in un incidente aereo è di 1 su 13,7 milioni.
In Italia, per quanto riguarda incidenti causati da velivoli militari, questa probabilità è ancora più bassa. All’epoca l’MB 326 era ancora un ottimo velivolo: anche se le necessità addestrative ne avevano richiesto un upgrading, il suo record in termini di sicurezza e di docilità nella condotta è stato veramente eccezionale. Quel giorno, un’improvvisa “piantata” di motore, unita ad una visibilità molto bassa, crearono le condizioni per una tragedia inevitabile.
Per inciso, il 16 luglio del 1991, un incidente analogo coinvolse un MB 326 su Sabaudia: una piantata di motore improvvisa non impedì al pilota T. Col. Lodovisi di dirigere l’aviogetto sul mare azionando il seggiolino eiettabile a pochi metri dall’acqua. Ma in quel caso la giornata era serena e con ottima visibilità, condizioni ben diverse da quella fredda e nebbiosa mattina a Casalecchio di Reno.
Accade rarissimamente, ma ogni volta che un aereo militare o di linea precipita nel nostro Paese, riaffiorano vulnerabilità emotive collegate a drammi e vicende dai contorni ancora irrisolti (Ustica, la vicenda del volo Argo 16 etc.). È vero che tecnologia e normative sono migliorate, ma rimane il monito che la fatalità in un volo di routine assume talvolta la forma dell’avaria, dell’imprevisto e infine anche dell’errore umano. Quest’ultimo non fu certamente il caso dell’incidente del 6 dicembre 1990, ma la vicinanza tra voli militari o civili e zone abitate continua a essere una criticità per ora insormontabile.
A 35 anni da quella mattina, una mattina come tante, il dolore dei familiari e degli amici delle vittime resta inalterato e con esso la consapevolezza che certe tragedie rimangono umanamente tali al di là di qualsiasi analisi tecnica.