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Sono nato a Taranto, a 15 anni ho perso due compagni per tumore: così si cresce nella città dell’ex Ilva

Mio padre maturò una consapevolezza dolorosa sulla pericolosità della fabbrica che, pur dando lavoro, avvelenava l'aria. Così ci portò a vivere a 50 chilometri di distanza, a Manduria
Sono nato a Taranto, a 15 anni ho perso due compagni per tumore: così si cresce nella città dell’ex Ilva
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di Massimiliano Di Fede

Sono nato a Taranto e la storia di quella fabbrica è indissolubilmente legata alla mia famiglia. Mio padre fu assunto nel 1971, quando il complesso siderurgico si chiamava ancora Italsider ed era a partecipazione statale. All’epoca, quel lavoro rappresentava un futuro, una promessa di benessere per un’intera generazione.

Mio padre maturò una consapevolezza dolorosa sulla pericolosità della fabbrica che, pur dando lavoro, avvelenava l’aria della città. Questa realizzazione lo spinse a prendere una decisione radicale per proteggerci: ci portò a vivere a circa 50 chilometri di distanza, a Manduria, dove potevamo aspirare a un ambiente più sano.

Ricordo con dolore i primi anni 80, quando ero studente delle scuole superiori: nella mia stessa classe, si ammalarono e morirono di una forma tumorale ossea due miei compagni appena quindicenni. Erano residenti nel famigerato quartiere Tamburi, proprio a ridosso degli impianti, dove purtroppo le morti e i malati si contano ancora oggi in quasi la totalità delle famiglie. Questa tragedia, che ha colpito ragazzi giovanissimi, è la dimostrazione più lampante di come la salute sia stata sempre subordinata alla produzione.

Il complesso, oggi noto come Ex-Ilva e attualmente sotto il controllo di Acciaierie d’Italia, una joint venture tra Arcelor Mittal e lo Stato italiano, è l’epicentro di una crisi ambientale, sanitaria, economica e occupazionale. La fabbrica, dopo essere stata a lungo statale, venne privatizzata e ceduta al Gruppo Riva che, negli anni, ha gestito l’impianto anteponendo il profitto alla salute e all’ambiente. La magistratura tarantina ha accertato un disastro ambientale e sanitario, portando al sequestro degli impianti “area a caldo” da parte della Procura.

Di fronte al rischio di blocco della produzione, lo Stato italiano è intervenuto con una lunga serie di “Decreti Salva-Ilva” a partire dal 2012. Questi provvedimenti, spesso in contrasto con le decisioni della magistratura, sono stati volti a garantire la continuità produttiva in attesa del risanamento ambientale, limitando di fatto l’efficacia delle norme a tutela della salute.

Nel 2017, la fabbrica in amministrazione straordinaria fu ceduta ad Arcelor Mittal. L’allora ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, aveva promosso questa operazione, introducendo contestualmente il controverso “scudo penale”. Questa norma esentava gli acquirenti da responsabilità penali per reati ambientali e sanitari, purché eseguissero il Piano Ambientale. La rimozione di questa garanzia da parte del Governo Conte I (M5S-Lega) nel 2019 fu un fattore chiave che portò Arcelor Mittal ad annunciare la volontà di recedere dal contratto. Il Movimento 5 Stelle aveva duramente criticato lo scudo penale, ritenendolo una licenza a inquinare.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), in diverse sentenze, ha condannato lo Stato italiano per non aver adottato le misure necessarie per proteggere la vita privata e il diritto alla salute dei cittadini di Taranto, sottoposti a rischi ambientali inaccettabili. La CEDU ha riconosciuto la violazione degli articoli 8 e 13 della Convenzione, obbligando l’Italia a intervenire.

Oggi, l’impianto opera tra stop produttivi e incertezze finanziarie. Gli operai sono in uno stato di perenne agitazione: protestano per la mancanza di sicurezza sul lavoro, per il ricorso massiccio alla cassa integrazione e per il ritardo del piano di risanamento. Le loro proteste evidenziano un dilemma doloroso: la paura di ammalarsi è pari a quella di perdere il lavoro.

L’immagine più forte di questa lotta è impressa sui muri di Taranto: il volto di Giorgio Di Ponzio, il ragazzo morto a soli 15 anni per un sarcoma, è stato dipinto dall’artista Jorit in un murale. Quell’opera, con la sua drammatica intensità, non è solo un monumento alla memoria delle vittime, ma un invito a non arrendersi. La scritta che accompagna l’immagine recita: “Basta ricatti. Vogliamo salute e lavoro. La nostra vita vale più dei vostri profitti”.

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