Il Novecento a teatro è stato ‘l’età degli esercizi’: un’epoca (forse) finita per sempre
Al Novecento teatrale sono state assegnate varie definizioni, con l’intento di coglierne le novità più importanti. Una delle più pertinenti è sicuramente “l’età degli esercizi”.
In effetti, perché si affermi l’idea della necessità per l’attore di un costante lavoro fisico e psicofisico, svincolato da quello per lo spettacolo (ciò che verrà chiamato in seguito allenamento o training), bisogna aspettare proprio gli inizi del secolo scorso. Fu allora che, grazie all’avvento dei registi, si manifestò una vasta reazione verso i conservatorii e le vecchie scuole ottocentesche.
Il capofila di questa reazione, il primo ad aprire uno Studio per attori (a Mosca nel 1911), fu Stanislavskij, attore lui stesso, regista e pedagogo. Quanto questa battaglia fosse difficile, dal momento che si trattava di sradicale abitudini secolari, il maestro russo lo spiega nell’ultimo capitolo della sua autobiografia, La mia vita nell’arte, uscita nel 1924: “La vecchissima idea che all’attore servono solamente talento e ispirazione è abbastanza diffusa anche oggi. […] Al contrario, più un artista è grande, più si interessa alla tecnica della sua arte. […] Solo i mediocri si vantano della loro familiarità con Apollo, del loro istinto infallibile e si mettono a cercare l’ispirazione nell’alcool o nelle droghe, rovinandosi precocemente il carattere e il talento” (ed. italiana a cura di Fausto Malcovati, La Casa Usher, 2009).
Quale sarebbe lo sconcerto dell’autore de Il lavoro dell’attore su se stesso se tornasse fra noi oggi e si accorgesse che i pregiudizi antitecnici, che lui bollava un secolo fa come “vecchissime idee”, imperversano tuttora, persino più di allora, anche grazie ai social media e alla sempre più dilagante illusione di un successo che, in qualsiasi campo, si può raggiungere senza solide competenze, lunghi apprendistati e duro lavoro quotidiano?
Tuttavia, se da tempo si sta manifestando nell’ambiente teatrale un vero e proprio rigetto nei confronti della tecnica e della necessità per l’attore di un allenamento permanente, la responsabilità, almeno in certa misura, va addebitata ai fraintendimenti cui è andata soggetta la lezione dei maestri su questi temi.
Per limitarci al secondo Novecento, nessuno di essi (da Grotowski a Barba, da Beck e Malina a Brook, da Mnouchkine a Suzuki) ha mai sostenuto che gli esercizi potessero essere, da soli, la chiave d’accesso alla creatività, pur sottolineando tutti la necessità da parte dell’attore di un lavoro su di sé complementare a quello per lo spettacolo. Purtroppo, in molti gruppi giovani degli anni Settanta e Ottanta, così è stata intesa e applicata la loro lezione. Con conseguenti delusioni, impasse creativi e rischi per la qualità artistica.
Eppure già lo stesso Stanislavskij, ad esempio nelle pagine da cui ho citato in precedenza, aveva messo in guardia per tempo dai rischi dell’idoleggiamento della tecnica a scapito del talento e dell’aspetto interiore del lavoro dell’attore.
In ogni caso, l’età degli esercizi, come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, è forse finita per sempre a teatro. Ma le esigenze che erano alla sua base restano ancora ineludibili per chiunque voglia dedicarsi oggi con serietà al mestiere dell’attore.
Peraltro, il Novecento è stata l’epoca d’oro degli esercizi anche fuori dal teatro. A cominciare dalla vera e propria rivoluzione prodotta dalla “riscoperta del corpo” alla fine dell’Ottocento, l’attività fisica ha permeato innumerevoli aspetti della società occidentale: dagli sport ai diversi metodi di ginnastica, dal culturismo alle varie tecniche di educazione e rieducazione corporea. Fino alla recente esplosione del fitness. Questa vicenda è l’oggetto di un libro curioso, fin dal titolo (Bill Hayes, Sudore. Una storia dell’esercizio fisico, Il Saggiatore, 2025), e tipicamente anglosassone nel modo in cui mescola il tentativo di un’archeologia del gesto atletico, che non può non rimontare fino ai Greci, all’autobiografia della propria relazione con gli sport, lo yoga ecc.
E’ singolare, ma non troppo a pensarci bene, che in un libro del genere manchi anche il più piccolo accenno al mondo del teatro e al training dell’attore.
Chiudo osservando che la nozione di “esercizio” è al centro di uno dei più complessi sforzi recenti di riformulare l’etica in termini filosoficamente rigorosi e aggiornati (Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Raffaello Cortina Editore, 2010). La tesi del denso volumone è la seguente: “L’uomo produce l’uomo attraverso una vita di esercizi. Definisco ‘esercizio’ ogni operazione mediante la quale la qualificazione di chi agisce viene mantenuta o migliorata in vista della successiva esecuzione della medesima operazione, anche qualora essa non venga dichiarata esercizio. […] Chi cerca esseri umani troverà acrobati”.
Anche in questo caso, se si eccettua un fuggevole e generico riferimento a Stanislavskij, il teatro del Novecento è completamente assente.