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Perché l’arresto di una gang venezuelana in Spagna è più di una notizia di polizia

Tredici persone sono state prese tra Barcellona, Madrid, Girona, La Coruña e Valencia in un’operazione che segna un punto di svolta nella lotta europea contro le reti criminali latinoamericane
Perché l’arresto di una gang venezuelana in Spagna è più di una notizia di polizia
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Per la prima volta, la Polizia Nazionale spagnola ha smantellato una cellula operativa del Tren de Aragua, l’organizzazione criminale venezuelana che negli ultimi anni ha trasformato la marginalità in sistema e il terrore in impresa. Tredici persone sono state arrestate tra Barcellona, Madrid, Girona, A Coruña e Valencia in un’operazione congiunta che segna un punto di svolta nella lotta europea contro le reti criminali latinoamericane. L’indagine, denominata Operazione Interciti e coordinata con Europol, rappresenta il primo riconoscimento ufficiale della presenza in Europa di una banda che — come osservano gli analisti di Insight Crime — è passata “dal controllo di una prigione venezuelana alla costruzione di un impero globale”.

Secondo la Polizia spagnola, la cellula disarticolata fungeva da nodo logistico e di comando, gestendo traffici di droga, sfruttamento sessuale e riciclaggio di denaro. Quattro dei detenuti sono già stati incarcerati su ordine dell’Audiencia Nacional, accusati di associazione criminale e tratta di esseri umani. Ma dietro sigle e numeri si nasconde una storia che va ben oltre la cronaca nera: una vicenda che intreccia crisi migratoria, militarizzazione e geopolitica della paura.

Il Tren de Aragua nacque tra il 2009 e il 2013 nel carcere venezuelano di Tocorón, nello stato di Aragua. All’inizio era una banda di detenuti che gestiva il contrabbando e la vita quotidiana dietro le sbarre, ma sotto la guida di Héctor Rustherford Guerrero Flores (1983), detto “Niño Guerrero”, divenne un’organizzazione strutturata, con regole, gerarchie e un’economia parallela. Dalla gestione della prigione si passò al controllo delle strade, dei quartieri, delle rotte migratorie. Il gruppo prese il nome da un progetto ferroviario mai completato, l’Aragua-Carabobo, ma trovò la propria “linea” nella costruzione di un sistema criminale fluido, capace di muoversi dove lo Stato si ritirava.

Narcotraffico, estorsioni, tratta di persone, controllo territoriale, sfruttamento sessuale: il Tren divenne presto sinonimo di potere informale, di un’autorità nata dall’assenza di Stato. Con l’esplosione della crisi venezuelana e l’esodo di milioni di persone, la banda sfruttò il caos come opportunità: si infiltrò nelle reti di migranti diretti verso Colombia, Perù, Cile, fino a raggiungere oggi l’Europa. “È un’organizzazione ibrida — spiegano da Insight Crime —, con un’anima paramilitare e un corpo da multinazionale del crimine”. Una struttura tanto gerarchica quanto adattabile, capace di replicarsi ovunque trovi vulnerabilità, povertà e silenzi istituzionali. In Spagna, i membri arrestati avevano già stabilito contatti con reti locali, utilizzando appartamenti e attività commerciali come copertura per i propri affari.

L’arrivo della notizia coincide con un momento di grande tensione geopolitica: diversi Paesi europei segnalano un aumento delle attività di gruppi criminali latinoamericani, in parallelo al deterioramento della sicurezza in Venezuela. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump — nel pieno della campagna elettorale 2024 — aveva rilanciato la narrativa di un “Paese esportatore di malandros e narcotrafficanti”, accompagnandola nelle ultime settimane con un blocco navale militare nel Mar dei Caraibi (violando il diritto internazionale), formalmente contro il narcotraffico ma di fatto pensato per strangolare politicamente il governo di Nicolás Maduro. Quella stessa narrativa si è radicata in parte della stampa internazionale, alimentando l’immagine di un Venezuela perennemente associato alla violenza, alla migrazione e al disordine.

Eppure la realtà è più complessa, più scomoda, più umana. Il Tren de Aragua non è solo un prodotto del crimine, ma del collasso istituzionale, della disuguaglianza strutturale e dell’impunità. È figlio di un sistema penitenziario che ha delegato la propria autorità ai pranes — capi mafiosi che amministrano le carceri come feudi — e di un’economia di sopravvivenza che ha spinto milioni di persone ai margini. Criminalizzare la diaspora venezuelana, come si fa troppo spesso, non solo è ingiusto, ma cieco: significa ignorare che dietro la violenza c’è una crisi sociale e politica che da anni attraversa frontiere, alimentata dalla povertà e dalla disperazione. L’espansione del Tren de Aragua è un effetto collaterale di un mondo che respinge invece di accogliere, che costruisce muri invece di offrire vie sicure e legali.

La disarticolazione della cellula spagnola è dunque un successo operativo, ma anche un campanello d’allarme. Non si tratta solo di arrestare dei responsabili, ma di comprendere le reti globali che permettono a questi gruppi di prosperare: flussi di denaro opaco, rotte migratorie insicure, cooperazione internazionale insufficiente e politiche europee sempre più segnate da un linguaggio di sicurezza e controllo. La Spagna, ponte storico tra Europa e America Latina, si trova oggi di fronte a un dilemma: proteggere i propri cittadini senza criminalizzare intere comunità.

Il caso del Tren de Aragua in Spagna è più di una notizia di polizia: è un riflesso di questo mondo interconnesso, dove la fragilità di uno Stato può generare onde d’urto che attraversano oceani. È anche un banco di prova per l’Europa, chiamata a ripensare le proprie politiche di cooperazione e a superare la logica dell’emergenza permanente. La vera domanda, allora, non è come fermare il Tren de Aragua, ma come impedire che continui a nascere ogni volta che la giustizia arretra e la speranza si spegne.

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