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La guerra di ‘Satanyahu’ mette in difficoltà gli artisti israeliani. E intensifica gli eventi teatrali pro Gaza

Dai teatri londinesi ai festival milanesi, cresce la solidarietà per la Palestina mentre gli artisti israeliani affrontano contestazioni
La guerra di ‘Satanyahu’ mette in difficoltà gli artisti israeliani. E intensifica gli eventi teatrali pro Gaza
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Qualche cartellone con l’immagine ‘indiavolata’ del premier israeliano e sotto scritto in grande ‘SATAN-YAHU’ saltava all’occhio anche solo nei servizi dei telegiornali sulla sfida per l’elezione del sindaco di New York. La rappresentazione mediatica dei gruppi più infervorati di sostenitori della corsa del democratico musulmano Zohran Mamdani non lasciava grandi dubbi.

Si dà il caso che il più polemico nickname affibbiato dai Pro Pal a Benjamin Netanyahu sia stato già immortalato dal cantante rap Magic Ali in ‘Satanyahu’s Inferno’ di Popluezy, poi nel brano ‘Satanyahu’ che dà il titolo al nuovo album del cantautore rock Din Ilango, e chissà quante altre volte ancora. Eppure, altro che rapper: nel mondo dello spettacolo le manifestazioni di solidarietà ai palestinesi di Gaza abbattono i confini non solo geografici, ma delle discipline più disparate. L’altra sera, a Milano, per il festival Danae, il raffinato coro di ALOT si è esibito in una rarefatta e quasi mistica rappresentazione che cuciva insieme vari canti sacri delle isole del Mediterraneo. E alla fine degli applausi, subito prima del dibattito con lo scrittore cattolico vicino a CL, Luca Doninelli, due coriste sono uscite di scena per ripresentarsi stendendo una grande bandiera della Palestina.

Nel mondo del teatro inglese, che poi è per tradizione uno dei più importanti non solo d’Europa, s’è arrivati in qualche caso addirittura al divieto di analoghe manifestazioni di solidarietà soprattutto perché – secondo l’accurata cronaca del giornale specializzato The Stage – alcuni teatri e società di produzione o distribuzione degli spettacoli temono ritorsioni dei finanziatori privati a cui hanno dovuto far sempre più ricorso dopo i tagli dei fondi pubblici. Tra essi, non mancano capitalisti vicini alla comunità ebraica e società che hanno interessi commerciali in Israele, in primis i fornitori di materiali bellici.

Del resto gli eventi teatrali Pro Pal più significativi a Londra, organizzati dal collettivo White Kite che riunisce gli artisti più vicini alla causa, compresi esuli e rifugiati palestinesi, si stanno intensificando proprio in questo periodo. E sia chiaro, non stiamo parlando di filo-Hamas, anzi: basta leggere l’ultimo intervento di Hossam Almadhoun, considerato il personaggio più di spicco della scena di Gaza, per trovare critiche pesantissime ai terroristi-integralisti e alla censura che esercitano rigidamente da quando sono al potere.

Tra i danni collaterali dell’orribile guerra di Netanyahu va registrata anche la situazione negativa in cui ha messo gli artisti ebrei israeliani nel mondo intero dello spettacolo. Particolarmente delicata la scena della danza contemporanea, disciplina nella quale sicuramente eccellono da anni, anche grazie ad alcuni magistrali campioni che hanno scelto di vivere in Europa, come Hofesh Shechter, eclettico coreografo, musicista, attore e autore che dal 2008 si è plasmato una grandiosa compagnia a Londra.

Oggi, dopo il massacro del 7 ottobre 2023 e la guerra seguente, anche le varie rinomate dance company israeliane, come la celebre Batsheva di Tel Aviv, si vedono sempre più raramente in Europa, per timore di attentati o anche solo di contestazioni. E pure invitare in Israele una delle migliori compagnie internazionali è diventato pressoché impossibile. L’unico Centro Coreografico Nazionale italiano, Aterballetto di Reggio Emilia, per esempio, ha rinunciato a un’importante tournée a Tel Aviv già prevista per la primavera del 2026, peraltro dopo aver declinato tutti gli ultimi inviti in Russia, per solidarietà all’Ucraina aggredita. E il 2 dicembre Aterballetto ha addirittura convocato a Bologna un incontro di studio, con il patrocinio dalla Regione, proprio sul tema caldissimo ‘Cultura e conflitti’.

A Milano, per un Teatro Carcano che organizza ormai da tre anni la serata ‘Free Free Palestine’, un certo glaciale silenzio a tema è calato sugli altri palcoscenici più importanti. Alla Scala, pur di evitare di lasciare spazio ai manifestanti Pro Pal che premevano alle porte, il 27 settembre, in occasione della cerimonia per i Sustainable Fashion Awards, il sindaco Giuseppe Sala ha dovuto chiudere il suo intervento introduttivo rivolto ai modaioli presenti, con un secco: ‘Permettetemi di dirvi un’ultima parola: Free Gaza’. Al Teatro Franco Parenti, per esempio, le repliche del monologo drammatico Anna Cappelli con Valentina Picello sulla deriva omicida-suicida di una donna emarginata, sono state dedicate ogni sera a ‘donne di diversa nazionalità vittime di orribili conflitti’: tra le prime, la fotogiornalista palestinese uccisa con l’intera famiglia di 10 persone dalle bombe israeliane a Gaza e la tatuatrice-influencer trucidata da Hamas al Nova Festival.

Ancora un piccolo esempio: il Menotti ha lodevolmente presentato una bella rassegna contro le guerre, ‘Teatro Disarmato’, ma è poi finito in una saletta che di solito ospita il bar, il pezzo più duro, ‘Causa di beatificazione’ di Rajeev Badhan, con il monologo finale dove una giovane attrice persiana interpreta la prima donna kamikaze palestinese. E ora si può ripescare giusto a Rovigo, il 16 novembre, altrimenti in sporadiche date del 2026.

Forse è proprio indovinato quel Satanyahu che allude direttamente al diavolo (dal greco diabolos = che divide): non c’è niente che oggi divida e imbarazzi il mondo più di Gaza.

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