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Iran, l’anno più mortale: ormai quattro impiccagioni al giorno

Iran, l’anno più mortale: ormai quattro impiccagioni al giorno
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Il 30 ottobre il Terzo comitato dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite assisterà alla presentazione dei due rapporti della relatrice speciale sull’Iran, Mai Saito, e della Commissione indipendente di accertamento dei fatti sull’Iran. Quel giorno, con ogni probabilità, le condanne a morte eseguite dall’inizio dell’anno avranno raggiunto le 1200: una media di 120 al mese, quattro al giorno, un numero che non si registrava dal 1989. Verrà superata anche quota 10.000, riferita alle esecuzioni registrate a partire dal 2010 da Iran Human Rights.

Negli ultimi tre anni, dopo l’inizio delle proteste del movimento “Donna Vita Libertà”, le autorità di Teheran si sono aggrappate al potere con l’unico strumento che è rimasto loro: la paura.

Ma le impiccagioni di oltre dieci manifestanti, con false accuse di reati violenti, non spiegano l’impennata delle esecuzioni. Né lo spiegano la “caccia alla spia israeliana”, iniziata a giugno dopo la cosiddetta “guerra dei 12 giorni”, sebbene il numero delle esecuzioni per spionaggio sia in crescita. A spiegarlo è il vertiginoso aumento dell’uso della pena di morte per reati di droga. Ormai la forca è l’unico strumento delle politiche antidroga del governo iraniano. L’Ufficio delle Nazioni Unite su stupefacenti e criminalità e il Comitato internazionale di controllo sulle sostanze narcotiche avrebbero dovuto da tempo farsi delle domande, e farle a Teheran, su questo genere di politiche, che violano i diritti umani (secondo il diritto internazionale, la pena di morte è lecita solo se applicata per “i crimini più gravi”, in altre parole gli omicidi intenzionali) e oltretutto sono fallimentari.

A fare le spese di tali politiche non sono infatti grandi trafficanti ma i piccoli spacciatori o le persone che fanno uso personale di droga: gente disperata, impoverita e marginalizzata, appartenente a comunità oppresse come quella curda e la beluca o all’infinita diaspora afgana.

Aggiungo, infine, che in una teocrazia dove il peccato è reato, finiscono impiccate persone accusate di reati unici nel loro genere e dalla descrizione assai vaga, corruzione sulla Terra e inimicizia nei confronti di Dio, che spesso vanno a “coprire” procedimenti giudiziari di natura politica. Tra le persone che rischiano di essere messe a morte ci sono lo scienziato iraniano-svedese Ahmadreza Djajali, noto anche in Italia per avervi condotto ricerche per anni, nel braccio della morte dal 2017; e tre donne: Sharifeh Mohammadi, Pashkhan Azizi e Verisheh Moradi.

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