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Colpo di grazia a sostenibilità e lavoratori: così l’Ue sta affossando la due diligence

Quella che poteva essere uno strumento importante per le catene di produzione del valore globali, non solo tessili, che vivono con salari da fame, ora sarà nel migliore dei casi inefficace
Colpo di grazia a sostenibilità e lavoratori: così l’Ue sta affossando la due diligence
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di Priscilla Robledo, responsabile lobby e advocacy Campagna Abiti puliti*

L’85% degli italiani ritiene che le grandi imprese, europee e non, debbano essere obbligate per legge a prevenire danni a persone, ambiente e clima, anche se ciò comporta maggiori costi; l’84% chiede che le aziende vigilino su tutta la catena del valore, assumendosi la responsabilità anche per le violazioni di filiali, partner e subfornitori — come nei casi che hanno recentemente coinvolto marchi come Loro Piana, Valentino e Armani. Il 79% si dichiara favorevole a piani obbligatori di riduzione delle emissioni di CO₂, una posizione condivisa anche da oltre il 70% di chi si colloca a destra o centrodestra. A rivelarlo è un recente sondaggio realizzato da SWG per la campagna Impresa2030, promossa da campagna Abiti Puliti insieme a Mani Tese e ASviS.

Eppure l’Unione europea sta andando in direzione ostinata e contraria.

Lunedì 13 ottobre, la commissione Affari legali del Parlamento europeo (JURI) ha approvato la propria posizione sulla proposta di pacchetto di semplificazione Omnibus I sulla sostenibilità della Commissione europea. Una notizia che può sembrare piccola e insignificante, e invece è grave.

Chi ha la responsabilità di evitare che le migliaia di persone che lavorano nelle catene di subappalti (il modello indiscusso con cui vengono prodotti oggi i beni e scambiati i servizi) vengano sfruttate? Il committente, perché ha il potere economico e contrattuale di determinare costi di acquisto e le condizioni di lavoro lungo la filiera. Se l’azienda si fregia di qualità e sostenibilità, deve garantirle non solo nei prodotti, ma anche nei diritti e nelle condizioni di chi li fabbrica per loro. Le grandi aziende devono occuparsi dei loro fornitori perché essi lavorano per loro e contribuiscono alla creazione della loro ricchezza.

Questo il senso della direttiva sulla due diligence (CS3D). Approvata in Unione europea nel luglio 2024, la CS3D si applicherà – a partire dal 2028, se entrerà in vigore – alle grandi aziende che hanno sede e/o operano in UE e prevede un processo di due diligence in linea con gli standard internazionali: obbligo di controllo esteso alla filiera per identificare gli abusi in materia di lavoro, diritti umani e ambiente e un regime di responsabilità civile unionale per la tutela giurisdizionale delle vittime di abusi aziendali.

Il percorso che ha portato alla CS3D è durato anni in cui si sono pubblicati studi, svolte valutazioni di impatto, consultati diversi stakeholder e negoziato su molti aspetti. Il risultato è stata una direttiva che ci poteva dare la speranza di contribuire a ridurre lo squilibrio di potere tra aziende, sindacati e lavoratori nelle catene di approvvigionamento e di fare un passo avanti verso la riduzione delle emissioni di CO2 a livello globale.

Poi però sono arrivate le elezioni europee del 2024, un cambio di equilibri politici, e con la relazione di Mario Draghi la nuova parola d’ordine è diventata competitività.

Pochi mesi dopo la Commissione europea ha presentato il pacchetto di revisione Omnibus, composto da due direttive: Stop the Clock (UE 2025/794) – già operativa – volta a ritardare l’entrata in vigore delle norme che cercano di affrontare in modo finalmente concreto i problemi più grandi che abbiamo di fronte: il cambiamento climatico, l’aumento della povertà e dell’insicurezza sociale, le migrazioni, lo sviluppo (direttiva sulla due diligence, direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità e tassonomia ESG) e Omnibus I – in fase di approvazione – che nel merito indebolisce ed elimina gli obblighi di controllo sulla filiera e le conseguenti responsabilità legali.

Anziché un tentativo di “limitare la burocrazia”, Omnibus è una corsa sconsiderata alla deregolamentazione. La campagna Abiti Puliti si è opposta fin da subito alla proposta della Commissione in ogni sede istituzionale disponibile, sia a Roma sia a Bruxelles. Oltre al mondo sindacale e del terzo settore, nel corso degli ultimi mesi si sono levate critiche esplicite anche da diverse parti del mondo imprenditoriale e finanziario. La principale riguarda l’incertezza e la mancanza di trasparenza, anche ai fini degli investimenti, che questa riforma Omnibus alimenta.

Il risultato di questo utilizzo quantomeno acrobatico del proprio potere di policymaking è che con questo voto i deputati europei incaricati di determinare la posizione dell’Europarlamento su Omnibus I hanno dato il colpo di grazia alla legittimità del concetto giuridico e legislativo di corporate accountability (responsabilità delle imprese). Quella che avrebbe potuto essere uno strumento importante per lavoratrici e lavoratori delle catene di produzione del valore globali, non solo tessili, che vivono con salari da fame e ai quali vengono negati i diritti fondamentali sul lavoro, ora sarà nel migliore dei casi solo uno strumento inefficace, e nel peggiore avrà l’effetto perverso di rafforzare l’impunità aziendale.

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* Campagna Abiti Puliti (CAP) è la sezione italiana della Clean Clothes Campaign. Coordinata da FAIR, vi aderiscono altre otto organizzazioni della società civile: AltraQualità, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Equo Garantito, FOCSIV, Fondazione Finanza Etica, GuardAvanti ETS, Movimento Consumatori e OEW.
La Clean Clothes Campaign è un network globale composto da oltre 220 organizzazioni della società civile e del mondo sindacale, in più di 45 paesi, che collaborano attraverso quattro coalizioni in Europa e Asia. Lavora con organizzazioni e campagne gemelle in Nord e Centro America, in Africa e in Australia. La rete lancia campagne e segue casi urgenti per sensibilizzare e mobilitare le persone a sostegno delle richieste di assistenza e solidarietà dei partner internazionali, al fine di risolvere i casi di violazione dei diritti nei paesi di produzione tessile. www.abitipuliti.org

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