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Fiabe e disabilità: in ‘Deforme’ il mostro non vuole essere più il cattivo

Fiabe e disabilità: in ‘Deforme’ il mostro non vuole essere più il cattivo
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Nel memorabile saggio Il flauto e il tappeto, pubblicato all’inizio degli anni 70 e ora contenuto nel volume Gli imperdonabili di Adelphi, Cristina Campo, scrivendo alcune delle pagine più ispirate del Novecento, affida alla fiaba il ruolo di custodire il senso del sacro nel naufragio di senso della modernità. La fiaba è un rito, non una mera finzione narrativa, un modo semplice quanto illuminante in cui l’invisibile regno degli archetipi si rivela alla nostra infanzia. “Poeticamente abita l’uomo su questa terra”, sanciva con accenti sublimi Friedrich Hölderlin e tale “base poetica” della mente umana veniva ripresa, tra gli altri, da un autore come Hillman; il più popolare tra gli allievi di Jung, vede nella forza dei miti il potere curativo delle storie, come modello per costruire il proprio mito personale.

Il valore perenne delle fiabe e dei miti è confermato, e non contraddetto, anche da interpretazioni, solo apparentemente, di segno opposto, proprio perché la fiaba come codice del sacro include anche tutto ciò che opposto al senso letterale.

Il tema del deforme nella fiaba è da sempre ambivalente e illuminante: pensiamo a fiabe come La Bella e la Bestia, Il brutto anatroccolo, Raperonzolo, Pollicino, Il Principe Ranocchio: ciò che è “brutto” o deforme è, spesso, un’apparenza illusoria del bello e del vero che si rivela, dopo il percorso iniziatico del protagonista, nel suo senso epifanico: gli esempi più simbolicamente cristallini di questo itinerarium sono L’asino d’oro di Apuleio e la figura di Pinocchio creata da Carlo Collodi.

Nottetempo, casa editrice sempre attenta a cogliere nuovi fermenti nella saggistica, ha pubblicato da poco il saggio Deforme. Fiabe, disabilità e inclusione di Amanda Leduc, un testo ibrido in cui autobiografia e critica culturale si intrecciano in una riflessione sul senso attuale delle fiabe. Leduc, partendo dalla propria condizione di persona con disabilità, ha l’intento dichiarato di analizzare come le fiabe occidentali abbiano costruito e perpetuato immagini di perfezione fisica e morale che escludono i corpi disabili. L’autrice interseca la propria esperienza di con riflessioni su rappresentazione, linguaggio e potere narrativa, raccontando la propria infanzia segnata da interventi chirurgici e dalla percezione di essere “diversa”.

Il testo mira a smontare la costruzione culturale della “normalità” e a proporre una nuova forma di narrazione inclusiva; per l’autrice la narrazione per cui l’eroe è bello e sano, il “mostro” o la “strega” è deforme, rende la disabilità un codice morale, non una condizione reale. Con la nascita della cultura Disney, la fiaba entra nel dominio dell’immagine. Il risultato è una pedagogia visiva in cui lo spettatore impara che la felicità appartiene solo ai corpi conformi ai canoni estetici dominanti.

Come spesso nelle riflessioni che potrebbe essere ascritte schematicamente alla sensibilità “woke”, si tratta di un punto di vista necessariamente e fieramente parziale (quello appunto di una prospettiva minoritaria), che punta a rovesciare lo sguardo dominante: per questo, logicamente, si tratta di una fase dialettica, per dirla in termini cari alla filosofia moderna, da ascoltare e integrare in una visione più ampia.

In realtà, a vedere moltissime serie tv, popolarissime tra i giovani, che di fatto sostituiscono nella contemporaneità la funzione narrativa dei miti e delle fiabe, il tema “del diverso” come eroe è talmente diventato mainstream da esser presentato in maniera quasi ossessivamente pedagogica: da Stranger Things a Supernatural, da Mercoledì a Le terrificanti avventure di Sabrina, il diverso e il “deforme” è sostanzialmente glorificato in un rovescio giocosamente “satanico” delle convenzioni..

Uso il temine non casualmente, visto che alcune serie sono proprio incentrate sull’appartenenza fiera al culto infero: la gradevolissima serie sulla giovane strega Sabrina, ad esempio, in ogni puntata (con apprezzabile cura filologica) propone litanie, formule latine, preghiere, rituali “capovolti” che sembrano fatti apposta per far gridare allo scandalo e alla propaganda LGBTQ+ i conservatori più fanatici.

In breve, il saggio di Leduc è interessante come contributo ulteriore da integrare all’interno di una visione che sia consapevole del valore simbolico e del senso del sacro, pilastri della narrazione archetipica, il cui smarrimento nei labirinti delle decostruzioni post-moderne spiega anche lo scollamento schizoide dalla realtà dell’attuale cultura progressista.

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