
Il filosofo Bernard H. Lévy, nel suo libro Solitudine di Israele, sostiene che Israele ha non solo il diritto di difendersi, ma il dovere di vincere, ossia di distruggere totalmente il nemico
di Luciano Sesta*
Recentemente, un analista favorevole alle operazioni militari israeliane a Gaza ha scritto: “Più estremi sono gli obiettivi di guerra di un aggressore ingiusto, maggiore è la necessità di impedirgli di vincere la guerra. Pertanto, la proporzionalità o meno del numero di civili morti a Gaza non dovrebbe essere determinata solo dall’importanza dei singoli obiettivi militari, ma anche dalla prospettiva di consentire a un nemico genocida come Hamas di mantenere il controllo di Gaza” (Bauhn, P., Just war, human shields, and the 2023–24 Gaza War. Israel Affairs, 30(5), 2024, 863–878).
Qui si afferma che poiché il nemico che si ha di fronte avrebbe l’intento, estremo, di annientare lo Stato di Israele, una risposta proporzionata a questo intento dovrà impedire la realizzazione di questo intento con la stessa determinazione con cui si impedisce la propria morte, e dunque badando più all’efficacia militare del proprio intervento che alla quantità di vittime che esso provoca. Se di fronte hai un nemico che vuole annientarti, gli scudi umani che esso usa per proteggere il proprio piano potranno essere sacrificati finché la minaccia non sia totalmente sventata. E poiché Hamas non è stata ancora debellata, si spiega come mai l’IDF continui a bombardare e colpire Gaza nonostante ciò stia provocando la morte di migliaia di civili palestinesi. Nell’ottica delle autorità israeliane non si tratta di una reazione sproporzionata all’attacco del 7 ottobre, ma dell’unica risposta adeguata all’intento distruttivo che quell’attacco rappresenta.
Adottando una posizione analoga, anche il filosofo Bernard H. Lévy, nel suo libro Solitudine di Israele, sostiene che Israele ha non solo il diritto di difendersi, ma anche il dovere di vincere, ossia di distruggere totalmente il nemico. Il dovere di vincere, qui, è parte integrante del diritto di difendersi, perché solo annientando Hamas ed Hezbollah – così si dice – Israele potrà dirsi al sicuro dal rischio di altri 7 ottobre. Altri analisti precisano che “la proporzionalità dovrebbe essere subordinata a un requisito di giustizia, ovvero che la guerra debba essere portata a una giusta conclusione”, e che, nel caso dell’assedio di Gaza, una giusta conclusione della guerra consiste nella distruzione di Hamas quale minaccia alla sicurezza di Israele, nella punizione dei responsabili degli attacchi terroristici e nella liberazione degli ostaggi israeliani.
Qualora le operazioni militari finalizzate a ottenere la specifica “giustizia” di questi tre obiettivi comportino un inevitabile sacrificio di civili, questo sacrificio sarà da considerarsi giustificato. E lo sarà, si badi, finché gli obiettivi non siano pienamente raggiunti. Non c’è dunque alcun limite numerico al sacrificio collaterale di vite umane, e i civili uccisi, se il risultato non è stato ancora raggiunto, non potranno mai, per definizione, essere troppi.
A questo ragionamento si può obiettare che la forza di un intervento militare va commisurata non alle intenzioni del nemico, ma alla sua effettiva capacità militare. E Hamas non ha i mezzi per distruggere Israele, tant’è vero che è costretto a lanciare razzi facilmente intercettati, o a raid a sorpresa che, pur uccidendo tragicamente civili, non rappresentano certo una minaccia esistenziale per l’intero Stato, semmai un problema di sicurezza interna. Il discorso vale anche per gli attacchi di Hezbollah, non solo per quelli di Hamas.
Quando Israele reagisce militarmente ai loro attacchi, ciò che conta è ciò che queste organizzazioni possono fare, non ciò che dichiarano di voler fare. E se Hamas ed Hezbollah possono certamente compiere attacchi, spesso tragici, contro obiettivi limitati, Israele dovrebbe rispondere in modo proporzionato a questi attacchi, non all’intenzione soggiacente di chi li ha sferrati. Tutto ciò che va oltre ciò che è strettamente necessario per difendersi da questi attacchi, come ciò che avviene ormai da due anni a Gaza, è umanamente, moralmente e giuridicamente sproporzionato. Diversamente, non si spiegherebbe l’ondata di indignazione che, di fronte alle operazioni di Israele a Gaza, sta ormai dilagando presso l’opinione pubblica mondiale. È dunque vero che Israele è oggi sempre più solo, come scrive Lévy. Non già perché abbia ragione contro tutti, ma perché si sta tragicamente ostinando nel proprio innegabile torto.
* docente di Filosofia Morale Dipartimento SPPEFF, Università di Palermo