In attesa del centenario di Dario Fo, mi chiedo chi è stato davvero nella mappa del teatro italiano contemporaneo
A poco più di un anno dalla ricorrenza, già si annunciano iniziative in tutto il mondo per celebrare il centenario della nascita di Dario Fo, grazie soprattutto all’attivissima Fondazione Fo-Rame, presieduta dalla nipote Mattea.
Ma chi è stato veramente Dario Fo? E in cosa è consistita davvero la sua grandezza, per altro indiscutibile? Non sembrino domande fuori luogo o irrispettose. Perché, al di là della popolarità planetaria di cui ha goduto e continua a godere, e che il conseguimento del premio Nobel per la Letteratura nel 1997 non ha fatto che accrescere ovviamente, ogni volta che tentiamo di fare i conti criticamente con Fo attore autore, e di trovargli un posto nella mappa del teatro italiano contemporaneo, ci scontriamo con grosse difficoltà.
Che il Fo performer sia del tutto estraneo all’attore-interprete del teatro di regia e dintorni appare così ovvio da non meritare troppe argomentazioni. Ma egli non può nemmeno essere considerato a pieno titolo un esponente della tradizione dell’”attore comico”, da Petrolini e Viviani a Eduardo, Totò e oltre, al di là delle evidenti congenialità. E ciò anche a causa della sua estraneità familiare al mondo dello spettacolo basso-popolare e per il carattere colto della sua formazione (Accademia di Brera e Facoltà di Architettura a Milano). Semmai, potremmo accreditarlo come uno dei casi di “contaminazione” comico-borghese che si producono a partire dal dopoguerra: accanto a quelli della canonica triade Bene-Cecchi-de Berardinis e di un altro eccentrico come Paolo Poli, o di fuoriclasse come Massimo Troisi e Roberto Benigni.
Infine, pur essendo difficile non riconoscergli l’appartenenza, e da assoluto protagonista, all’ambito del nuovo teatro italiano, l’estraneità di Fo alla neoavanguardia degli anni Sessanta-Settanta risulta – a mio parere – incontrovertibile, dal momento che quest’ultima si attestò sostanzialmente su di un’estetica della “scrittura scenica” che vedeva nel regista il suo principale soggetto creativo, con l’attore posto invece, almeno in linea di principio, sullo stesso piano di tutti gli altri linguaggi e materiali dello spettacolo.
Fo attore autore è estraneo a questo nuovo teatro di regia fin dall’inizio, e non soltanto per ragioni ideologico-politiche come troppo spesso si ripete. Queste infatti entrano in gioco abbastanza tardi, quando la sua cifra espressiva è già compiutamente definita ed egli sta covando i suoi due exploit assoluti: Mistero Buffo (1969) e Morte accidentale di un anarchico (1970).
A ben vedere, Fo è più di casa nella filiera europea dei registi-pedagoghi, o meglio dei maestri, che abita il cuore del Novecento teatrale. In particolare, egli appartiene al versante più avanzato di questa filiera: quello che da Stanislavskij a Mejerchol’d, da Copeau a Decroux, da Grotowski a Barba, opera appunto in direzione di una drammaturgia d’attore intesa come invenzione e montaggio di azioni fisiche e vocali basati sull’utilizzazione di principi e tecniche extraquotidiani. Principi e tecniche che si possono rintracciare agevolmente nelle sue strepitose performance, soprattutto quelle del Fo monologante da Mistero buffo a Fabulazzo osceno, e ancor di più nelle sue straordinarie dimostrazioni di lavoro, di cui sono fortunatamente rimaste consistenti tracce audiovisive, oltre che l’aureo volume Manuale minimo dell’attore (1987), curato magistralmente da Franca Rame.
Dario Fo che si allena, che suda magari, che subisce la tortura dell’addestramento tecnico? Ecco un’immagine abbastanza inconsueta rispetto a quelle vulgate della sua folgorante carriera. Eppure si tratta di un’immagine fondata e documentabile, anche se è rimasta quasi sempre un po’ in ombra rispetto a quelle che ci parlano di un talento naturale prorompente, un affabulatore-intrattenitore nato, un “cavallo di razza” che sarebbe stato impossibile e comunque sbagliato imbrigliare.
Per mettere a fuoco adeguatamente quest’altro Fo, attore altamente e consapevolmente tecnico, bisogna rivalutare quello che, a conti fatti, ha rappresentato il suo solo, effettivo apprendistato pratico, beninteso oltre alla “gavetta” nel teatro di rivista. Mi riferisco al vero e proprio insegnamento impartitogli dal grande mimo francese Jacques Lecoq negli anni Cinquanta, quando questi fu collaboratore decisivo per i due celebri spettacoli dei Gobbi, il trio Parenti-Fo-Durano: Il dito nell’occhio (1953) e Sani da legare (1954).
Ricerche abbastanza recenti (ad esempio di Guido Di Palma) hanno meglio valorizzato l’esperienza con Lecoq, dallo stesso Fo riassunta nella formula “il disordine nell’ordine”. Grazie ad essa egli entrò in rapporto con la grande tradizione del nuovo francese, quella di Jacques Copeau e della Scuola del Vieux Colombier. Forse anche il celeberrimo grammelot affonda lì le sue radici, così come l’interesse per il teatro comico medievale e la successiva scelta del giullare quale spirito guida e alter ego.