Iron Maiden a San Siro, dal sogno all’incubo dei prezzi: 184 euro per il prato sono una sproporzione
I post pubblicati all’indomani dell’annuncio del concerto degli Iron Maiden a San Siro, sul mio profilo pubblico di Facebook collegato a questo blog, hanno scatenato un dibattito acceso: centinaia di commenti, posizioni contrapposte, discussioni roventi. Segno che la questione non è marginale, ma tocca il cuore del rapporto tra band, pubblico e mercato. Da una parte l’illusione di un ritorno all’antico, con il prato unico senza pit né golden circle. Dall’altra la doccia fredda dei prezzi: 184 euro per il posto prato. Nei consueti nove punti di questo blog voglio ripercorrere la parabola, dall’entusiasmo al disincanto. Cominciamo.
1. L’illusione iniziale
All’inizio sembrava quasi un miracolo. Un gruppo metal che approda a San Siro, stadio divenuto tristemente luogo occupato dal pop più mainstream, e lo fa annunciando un prato unico: niente golden circle, niente aree privilegiate, niente recinti. L’immagine evocata era quella degli anni in cui conquistare la transenna significava alzarsi presto, fare la fila, resistere ore in piedi. Una promessa di equità e ritorno alla fisicità dell’esperienza live, che ha acceso entusiasmi e nostalgie in chi ricorda i concerti come un rito collettivo e non un lusso per pochi.
2. La doccia fredda
Poi sono usciti i prezzi, e l’entusiasmo si è infranto. Centottantaquattro euro per il prato hanno cancellato in un colpo la retorica del ritorno ai vecchi tempi. La discriminazione non stava più nei recinti fisici, ma direttamente nel costo. Bastava il portafoglio per segnare il confine tra chi poteva esserci e chi no. La poesia del prato unico è stata sostituita dalla realtà di un muro economico. Un meccanismo semplice e spietato: togli le barriere visibili e alzi quelle invisibili, con la stessa logica di sempre.
3. Il pit unico
La formula è stata presentata come scelta democratica, ma non di democrazia si è trattato. Al posto dei soliti recinti, è comparso un unico recinto gigantesco, con il biglietto a tariffa proibitiva. Una manovra di maquillage: si cambiano le parole, non la sostanza. Perché se prima la distinzione era tra chi poteva spendere tanto e chi poco, oggi resta chi può spendere molto e chi è tagliato fuori. Nessun ritorno ai vecchi tempi, solo un “pit unico” più costoso, mascherato da uguaglianza.
4. Il fronte dei contestatori
I commenti hanno portato alla luce un fronte variegato. C’è chi ha sottolineato la sproporzione rispetto ad altri Paesi: Lisbona con prezzi tra 75 e 85 euro, Parigi intorno ai 90. C’è chi ha accusato i promoter, chi le agenzie, chi la band stessa. Altri ancora hanno ironizzato: da Fear of the Dark a Fear of the Price il passo è breve. E poi le proposte radicali: “boicottare i concerti” per ribellarsi al sistema. Non più solo delusione, ma la sensazione di essere stati presi in giro.
5. La divisione delle responsabilità
Promoter, agenzie, band: chi decide davvero? I cachet degli artisti sono fissi, le agenzie trattano, i promoter stabiliscono i prezzi. Ma pensare che la band sia all’oscuro è un’illusione. Quando si parla di Iron Maiden si parla dell’intera macchina che regola l’operazione: booking, mediatori, management e infine la band stessa, che resta il culmine e il volto pubblico di tutto. Attribuire ogni colpa agli organizzatori significa ridurre un sistema complesso a un capro espiatorio. La verità è che ogni anello della catena è corresponsabile.
6. Robert Smith contro tutti
Eppure, qualcuno ha dimostrato che si può agire diversamente. Nel 2023 Robert Smith, leader dei Cure, impose a Ticketmaster di rimborsare i fan per le fee gonfiate e di ridurre le commissioni. Non tirò fuori soldi di tasca propria, ma mise pressione sul colosso, ottenendo rimborsi di 5 e 10 dollari e costi più bassi per le vendite successive. Un gesto simbolico ma concreto, che dimostra come un artista possa esporsi per i propri fan. L’alibi del “non decidiamo noi” crolla davanti a esempi simili.
7. L’Italia più cara d’Europa
Il caso Maiden riporta in primo piano una verità amara: l’Italia è tra i Paesi più cari per i concerti. Non solo grandi nomi rock o pop, ma in generale. Fisco, costi organizzativi, inefficienze, oppure pura avidità: le spiegazioni non mancano, ma il risultato non cambia. Per lo stesso spettacolo altrove si spende la metà. E i fan italiani, tra servizi spesso scadenti e stadi vetusti, hanno la sensazione di pagare sempre di più per ricevere sempre meno. Un’anomalia cronica, mai davvero affrontata.
8. Il pubblico tra nostalgia e rabbia
Sotto i post si è divisa la platea. Da un lato chi ricorda i concerti anni ’80 e ’90: le albe passate davanti ai cancelli, la corsa disperata per la transenna, la conquista fisica di uno spazio. Dall’altro chi vede in questo presente solo frustrazione: non più la passione a fare la differenza, ma la carta di credito. La corsa sotto la pioggia sostituita dall’algoritmo del biglietto online. In questa sostituzione, il concerto perde gran parte della sua dimensione rituale e collettiva
9. Il prezzo della verità
Un prato unico da 184 euro non è un ritorno alle origini, ma l’ennesima versione aggiornata della recinzione. A casa mia, questo si chiama manipolazione. Il linguaggio si traveste da democrazia, la sostanza resta esclusione. Ed è qui che il giudizio diventa inevitabile: quel sonoro e stratosferico vaffanculo già indirizzato ai Radiohead per l’ambiguità della gestione delle vendite dei biglietti di Bologna non può che valere anche per gli Iron Maiden. Anzi, in questo caso, suona persino più sentito.
Come sempre chiudo con una connessione musicale: una playlist dedicata, disponibile gratuitamente sul mio canale Spotify — il link è qui sotto. Se vuoi entrare nel dibattito, puoi farlo nei commenti o sulla mia pagina pubblica di Facebook, collegata a questo blog. È lì che la conversazione continua, tra post, repliche e spunti che spesso sorprendono. E sì: se ne leggono davvero di tutti i colori. Buon ascolto e buona lettura.
9 canzoni 9 … degli Iron Maiden