Comunicare il clima, il sociologo Deriu: “I dati non bastano a dettare una linea politica. Ripartiamo dalle comunità locali”
Unire scienziati, cittadini e giornalisti che si occupano di clima e ambiente, sui quali si confrontano visioni del mondo differenti. E poi, anche, relativizzare, un giornalismo ambientale basato sulla religione del dato, sia pure scientifico, che da solo non basta. Su questi temi e molti altri ruota un libro importante e frutto di competenze diverse, Il clima dell’informazione (Castelvecchi) a cura di Marco Deriu, Osman Arrobbio, Niccolò Bertuzzi, con la prefazione dello scienziato Stefano Caserini. Abbiamo intervistato Marco Deriu, sociologo, docente di Comunicazione ambientale all’Università di Parma e condirettore dei Quaderni della decrescita.
Perché un libro sull’informazione sul clima in Italia?
Abbiamo visto in questi anni come a fianco della crescita di informazione scientifica, della disponibilità di dati e analisi, non sia in maniera lineare aumentata la sensibilità culturale e politica. In parte con i movimenti giovanili c’è stata sicuramente una maggiore presa di responsabilità, però vediamo che ancora a livello politico o di opinione pubblica ci sono ancora molti buchi, molte contraddizioni o addirittura, in alcuni Paesi e contesti, delle vere e proprie regressioni, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. L’informazione e la comunicazione sul clima e sull’ambiente – dall’elaborazione al recepimento – costituiscono a tutti gli effetti una parte rilevante del quadro complessivo oltre che della possibilità di intervento.
Nel suo intervento lei sottolinea il tema dei conflitti di interesse di giornali e media, elencando le proprietà di giornali e tv una per una.
Sì, c’è un tentativo di ricordare che il mondo dell’informazione non è astratto, ma i media sono parte di un sistema culturale, sociale, economico. Da questo punto di vista in Italia abbiamo uno scenario che non è tra i più aperti e pluralistici nel senso che c’è una fortissima concentrazione di proprietà dei media e delle testate e un loro intreccio con interessi legati al settore edile, all’industria dell’energia e dell’automotive ecc. Questo pone un problema di libertà. Non è un caso che oggi, a parte poche realtà più indipendenti, i giornalisti che si occupano di ambiente sono spinti a ricavarsi ampi spazi di lavoro e di intervento anche all’esterno per non essere limitati dalle linee editoriali delle proprie testate, e molti altri, la maggior parte, sono freelance che cercano di dar vita a reti e forme di giornalismo indipendente.
Lei però critica anche un giornalismo asettico, scientifico, fatto di dati puri. Perché?
Ci sono tanti studi su questi temi ormai che ci suggeriscono il fatto che non esiste una percezione oggettiva e impersonale dei dati, delle notizie, dei fatti: tutto quello che ci raggiunge viene interpretato e codificato sulla base di visioni del mondo, sistemi di valori, priorità che in qualche modo abbiamo interiorizzato nell’ambiente sociale nel quale siamo cresciuti. E questo spiega anche perché negli ultimi decenni c’è stata una polarizzazione molto rigida rispetto al tema del clima o dell’ecologia, si tende a trincerarsi attorno a schieramenti identitari.
Come si risponde a questo?
Secondo me non è utile rispondere con giudizi denigratori e stereotipati. Si tratta invece di tener conto che occorre reinquadrare una serie di fatti, vicende e tensioni in una dimensione di significati, valori e rappresentazioni della società e del mondo che possano interpellare persone e ambienti differenti. Da questo punto di vista anche gli scienziati oltre ai giornalisti sono chiamati a sviluppare una certa competenza rispetto al tema delle cornici e delle dinamiche della comunicazione, perché c’è un punto fondamentale.
Quale?
Non capita quasi mai che si cambi idea semplicemente perché si è raggiunti da un’informazione o da un dato specifico, ma perché un certo tipo di informazione o visione delle cose riesce a essere riletta modificando o reinterpretando i principi valoriali o le categorie attraverso cui pensiamo a noi stessi e al nostro quotidiano: visioni legate non solo alla giustizia globale, ma anche alle comunità, ai territori, ai rapporti tra generazioni e anche alla convivenza tra umani e non umani.
Esistono dei dogmi, delle rigidità anche a sinistra? Lei cita anche il concetto di sviluppo sostenibile.
Io segnalerei tre situazioni diverse: una, appunto, riguarda l’egemonia del concetto di “sviluppo sostenibile”. Al di là del dibattito sulle cornici teoriche, per cui molti considerano lo sviluppo sostenibile una formulazione contraddittoria e inaccettabile, resta il fatto che una formulazione così ambigua da tener dentro (quasi) tutti – grandi imprese, istituzioni, accademici e scienziati – è divenuto un velo che impedisce di leggere i conflitti sottostanti e quindi ostacola un reale ed effettivo confronto rispetto alle alternative possibili.
La seconda situazione?
Riguarda il fatto che in Greta e nei movimenti come i Fridays For Future c’è stata, almeno in una prima fase, una semplificazione nel ritenere che le conoscenze scientifiche, e i dati sul clima, fossero sufficienti per dettare una linea politica o di azione univoca. Questo ha portato a disconoscere che anche a fronte degli stessi dati e delle stesse informazioni ci possono essere valori e priorità molto differenti, che rimandano quindi a sintesi sociali e politiche opposte. Da questo punto di vista serve una scienza più capace di misurarsi con le comunità locali, con i soggetti colpiti dai cambiamenti, e quindi con le dinamiche sociali, culturali, economiche. Le emergenze climatiche ed ecologiche non sono una questione neutra o indifferenziata, ma richiedono una consapevolezza politica della pluralità di condizioni, rischi, responsabilità, interessi, prospettive. Su questa base occorre fare delle scelte e gestire gli inevitabili conflitti.
Come valuta il registro “apocalittico”?
Nelle visioni ambientaliste tradizionali il richiamo al collasso e alle catastrofi era sempre fatto in una funzione di auto negazione, cioè si richiamava la possibilità della catastrofe perché si agisse in tempo per evitarla. Quello a cui ci troviamo di fronte oggi è invece il fatto che quel tipo di narrazione apocalittica è stata normalizzata, dalla tv, dal cinema dai videogiochi, da alcune frange politiche; la possibilità del collasso o di un mondo segnato da conflitti radicali viene assunto in senso regressivo come un destino inevitabile e riportato a un’idea di darwinismo sociale, di lotta di tutti contro tutti per il controllo delle ultime risorse. La vecchia retorica universalista lascia spazio al ritorno dei nazionalismi e dei sovranismi aggressivi. In questo senso è fondamentale produrre anticorpi sul piano dell’immaginario, concependo spazi di trasformazione, di cambiamento che siano coinvolgenti e appassionanti. La questione ecologica e climatica si può affrontare solo ridefinendo assieme il senso e le forme della democrazia.