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Alberto Trentini, l’appello della madre: “Cosa penserà del suo Paese che per mesi lo ha abbandonato? Il governo lo porti a casa”

Le parole della madre dell'operatore umanitario detenuto in Venezuela alla Mostra del Cinema di Venezia
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“Esigiamo che il nostro governo concretizzi gli sforzi per portare a casa Alberto. Ogni giorno in più di detenzione e di attesa produce una intollerabile sofferenza. Mi chiedo spesso: cosa penserà questo ragazzo del suo Paese che per mesi l’ha abbandonato e non si è attivato abbastanza per liberarlo?”. Sono le parole contenute nella lettera presentata questa mattina da Armanda Colusso, madre di Alberto Trentini, intervenuta alla mostra del Cinema di Venezia per chiedere la liberazione dell’operatore umanitario arrestato in Venezuela il 15 novembre 2024, mentre si recava in missione a Guasdualito per conto di una Ong che si occupa di persone con disabilità.

“Sappiamo che è rinchiuso in una struttura di detenzione a Caracas senza che gli siano state contestate accuse formali”, ha proseguito Colusso facendo riferimento alla prigionia di suo figlio a El Rodeo I. ” Ora siamo al 28 di agosto 2025 ed Alberto è ancora in prigione. Da allora ha potuto chiamarci due volte e per pochi minuti, ma nessuno l’ha mai potuto incontrare“, ha proseguito dopo aver ringraziato il direttore della mostra, Alberto Barbera, per l’opportunità di presentare la situazione di Trentini al mondo dell’arte e del cinema.

Nella sua lettera, la donna esprime gratitudine anche per gli sforzi compiuti finora dalla legale Alessandra Ballerini, dall’associazione Articolo 21 di Beppe Giulietti, dall’attrice Ottavia Piccolo e dagli amici di Trentini. “Ma non basta – ammette -. Noi stiamo vivendo un dolore atroce che cresce ogni giorno di più. E allora chiedo anche a voi di aiutarci: Alberto deve tornare a casa e subito”. L’appello è sempre più concreto, man mano che scorre il tempo e Trentini resta prigioniero. “Scrivete, parlatene, passate la voce”, dice ad artisti, giornalisti e non solo, affinché l’attenzione creata “possa essere da sprone per chi ancora tentenna”. Il suo grido è quello di una madre che vuole riavere a casa il figlio. Colusso chiama in causa Roma e Caracas: “Vorrei gridare la mia disperazione e che il mio grido oltrepassasse l’oceano per arrivare in Venezuela, a chi lo tiene prigioniero da nove mesi“.

A sua volta il direttore della mostra di Venezia ha manifestato la propria solidarietà alla famiglia Trentini commentando: “Ciò che state vivendo è ingiusto e insostenibile, soprattutto in assenza di un campo di imputazione”. E il punto emerge un’altra volta: contro Trentini non vi sono accuse formali, né alcuna condanna da parte delle autorità di Caracas. Finora il governo venezuelano non ha neppure confermato il luogo della prigionia, El Rodeo I, invece noto grazie alla testimonianza di qualche ex-detenuto che ha condiviso gli spazi detentivi con l’operatore umanitario.

Già lo scorso 24 agosto, dopo la scarcerazione degli italo-venezuelani Margarita Assenza e Americo De Grazia, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è intervenuto a margine del meeting di Rimini, assicurando di fare la propria parte “per cercare di liberare tutti gli italiani che sono detenuti”. E ha aggiunto: “I cittadini italiani sono tutti uguali, quindi lavoreremo affinché tutti quanti possano essere liberati, anche se non è facile”. Ma al di là dell’appiattimento formulato da Tajani, l’urgenza dei connazionali detenuti in Venezuela può variare a seconda dei casi: Trentini non ha vincoli di parentela né alcuna rete d’appoggio nel Paese sudamericano e la sua salute è in balia delle autorità di Caracas. Né lui né Biagio Pilieri – che oggi compie un anno di prigionia nell’Helicoide, prigione di Caracas – hanno mai ricevuto una visita consolare né da parte dei loro familiari.

Nel frattempo le loro famiglie sperano ancora nella missione dell’inviato speciale per gli italiani in Venezuela, Alberto Vignali, che tuttora segue da vicino la situazione dei 200mila connazionali che risiedono nel Paese. Operazione diplomatica per niente facile, tenendo conto delle tensioni in escalation tra Caracas e Washington, che proprio ieri ha rafforzato la presenza militare in prossimità delle acque territoriali venezuelane mediante l’invio di un sottomarino nucleare Uss Newport News. Il gesto è stato ritenuto offensivo dal governo venezuelano, che ha chiesto alla Casa Bianca “garanzie verificabili” del non-intervento statunitense, e che ha convocato d’urgenza l’Organismo per la proibizione delle armi nucleari in America Latina e nei Caraibi (Opanal). Washington si presume abbia anche appoggi dentro il Paese sudamericano, dove funzionari del Servizio bolivariano di Intelligence hanno chiuso un occhio dinanzi alla fuga dell’imprenditore Francisco Convit, già informatore della Casa Bianca, fuggito da Caracas la scorsa notte.

Di fronte a questo clima, l’intervento italiano non può che essere distensivo e libero dai condizionamenti e dai canti di sirena di Washington, come accaduto con Cecilia Sala, dove è prevalsa la centralità della persona, al di là delle differenze ideologiche. Ne va dei prigionieri politici, ma anche di 200mila concittadini che vivono ancora lì.

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