“100 % cotone” vuol dire sostenibile? Dipende
Da un lato, la saggezza popolare che invita a cercare sull’etichetta la scritta “100% cotone” quando si acquista un set di lenzuola, una t-shirt o una tutina per un neonato. Dall’altro, organizzazioni non governative e mass media che denunciano lo smodato consumo di acqua e pesticidi per le coltivazioni di cotone. Come valutare questa fibra? Come spesso accade, la risposta è “dipende”. Mi spiego meglio: il cotone, come ogni altra fibra tessile, ha dei pro e dei contro. Nella prima categoria mettiamo senza dubbio il fatto che è una fibra naturale fresca, traspirante, resistente e ipoallergenica. Essendo naturale, è biodegradabile: il suo tempo medio di decomposizione è di circa due mesi. Anche gli scarti della filatura trovano una seconda vita per comporre materiali fonoassorbenti, isolamenti interni o esterni per gli edifici, oppure riempitivi per asfalti. La cellulosa ha una funzione anche nell’industria alimentare, sotto forma di addensante, additivo o stabilizzante.
Insomma, la fibra di per sé è utile, versatile e si presta bene all’economia circolare. I problemi ambientali nascono soprattutto in fase di coltivazione. Da soli, i campi di cotone consumano l’11% dei pesticidi, il 24% degli insetticidi e il 4% dei fertilizzanti sintetici a base di fosforo e azoto usati nel mondo. Sull’impronta idrica, in realtà, i dati più recenti risultano piuttosto rassicuranti. L’ultima analisi condotta dall’International Cotton Advisory Committee (ICAC) calcola una media di 8.920 litri di acqua per un chilo di cotone, di cui circa il 25% è fornito dall’irrigazione: per tutto il resto basta la pioggia. Insomma, il cotone di per sé richiede un quantitativo di acqua paragonabile ad altre colture; le criticità, piuttosto, sono legate alle pratiche di gestione inefficienti adottate in alcuni Paesi in via di sviluppo. In Uzbekistan, dove il 30% delle terre arabili è destinato al cotone, si stima che il 60% dell’acqua destinata all’irrigazione non raggiunga i campi a causa di perdite nei canali e infrastrutture obsolete. Quando si adottano tecniche agricole inefficienti, affidandosi a fitofarmaci e fertilizzanti pur di mantenere i volumi produttivi necessari, la logica conseguenza è il degrado del suolo.
Trovare modalità più sostenibili di produrre questa fibra è una necessità, anche perché è seconda soltanto al poliestere nella classifica delle materie prime più usate nel comparto tessile: nel 2024 il volume di produzione globale si è attestato sui 24,4 milioni di tonnellate, il 20% del totale. Per chi vuole acquistare in modo più consapevole, una possibilità è quella di cercare le etichette GOTS (Global Organic Textile Standard) e OCS (Organic Content Standard). Entrambe certificano che il cotone sia biologico, il che significa che è stato coltivato senza OGM, diserbanti e pesticidi, ricorrendo a metodi naturali per tenere alla larga i parassiti e strappando le erbe infestanti attraverso gli appositi macchinari. Queste pratiche, unite alla rotazione periodica delle colture, mantengono in salute il terreno e abbattono il consumo di energia e acqua (la differenza rispetto ai metodi convenzionali è rispettivamente del 62 e del 71%).
Un altro marchio da tenere d’occhio, e che magari molti conoscono per il cacao, il caffè o altri prodotti alimentari, è Fairtrade. Garantisce che i lavoratori e le lavoratrici ricevano un determinato prezzo minimo a cui si aggiunge il Fairtrade premium, un margine di guadagno da reinvestire per il benessere della comunità locale. Tornando agli aspetti ambientali, un’altra opportunità è quella di scegliere il cotone riciclato che si riconosce dalle etichette GRS (Global Recycled Standard) e RCS (Recycled Claim Standard). In questo ambito, l’innovazione tecnologica è destinata a riservarci parecchie sorprese. Il riciclo meccanico, tuttora il più comune, presenta alcuni limiti strutturali perché impone di tagliare la fibra (sacrificandone in parte la qualità) e risulta molto più complicato coi tessuti misti. Ecco perché vari brand e startup si stanno concentrando sul riciclo chimico, con esperimenti molto interessanti che vale la pena di tenere d’occhio. A queste considerazioni si aggiungono i rischi legati al mancato rispetto dei diritti umani nella filiera. Motivo per cui molti brand, soprattutto di alta qualità, hanno bandito la provenienza da zone del mondo in cui esiste ancora la schiavitù, tra cui la regione autonoma cinese dello Xinjiang.
Possiamo quindi concludere con una sorta di breve vademecum delle domande da farsi sulla produzione in cotone: il prodotto è realizzato in monomateriale? Ha certificazioni che attestino la riduzione di impatto ambientale e/o sociale? Ha subito processi, come la tintura e la stampa, che possono ridurre la bontà della fibra? Che garanzie riesce a dare il brand in merito al controllo della filiera?