Venti bambini fanno il dio Krishna e ci ammaestrano sulla saggezza umana
Gli eserciti sono schierati: da una parte i Kaurava e dall’altra i cugini nemici Pandava. La battaglia sta per scatenarsi. Ma uno dei Pandava, il guerriero Arjuna, ha un’esitazione, e chiede al suo auriga, in cui ha riconosciuto il dio Krishna, di fermare il cocchio in mezzo ai due eserciti, perché possa vedere coloro che stanno dinnanzi a lui, “bramosi di combattere”.
Il dio lo accontenta: “Arjuna vide allora di fronte a sé padri, nonni, maestri, zii, fratelli, figli, nipoti e compagni”. Penetrato da profonda pietà e afflitto, egli si rivolge a Krishna per manifestargli la sua intenzione di non combattere. Non capisce quale beneficio potrebbe venire da una strage di parenti e amici.
La lunga risposta del dio, interrotta da domande e dubbi del guerriero, è ciò che costituisce la Bhagavadgītā, ovvero Il Canto del Beato, incastonato come une gemma preziosa al centro del più grande poema epico indiano, il Mahabharata (cito secondo la trad. di Raniero Gnoli, BUR). La Bhagavadgītā rappresenta forse il testo poetico-filosofico più famoso dell’India antica e, al tempo stesso, anche uno dei più noti e influenti della cultura mondiale. Da questo poemetto, completando così un triennio di confronto con la cultura e la sapienza orientali (dopo Il Verbo degli Uccelli nel ’23 e Panchatantra nel ’24), sono partiti per lo spettacolo di quest’anno gli amici del Grande Teatro di Lido Adriano, con Luigi “Gigio” Dadina in testa.
Siamo sulla riviera romagnola, in una cittadina (ancora non affollata di villeggianti ai primi di giugno) che ha quasi il 30% di immigrati dalle provenienze più disparate. Qui, innestandosi su un lungo lavoro di rigenerazione urbana svolto dal Cisim, tre anni fa è decollato un progetto di teatro di comunità, che coinvolge la popolazione, dai bambini ai giovani agli adulti, spingendola tuttavia non a confrontarsi con la propria storia o il proprio vissuto (come in casi analoghi) ma piuttosto a guardarsi in uno specchio distante, alto ed estraneo almeno a prima vista, dentro cui ritrovare da una diversa prospettiva i problemi, piccoli e grandi, che assillano da sempre l’umanità, le domande che l’uomo si fa da sempre: sulla vita, il male, il bene, il dolore, la felicità, la sopportazione, la convivenza con gli altri.
Ma tutto questo, sia chiaro, senza seriosità alcuna, e quindi seriamente, attraverso il gioco collettivo del teatro, ognuno con il proprio corpo e la propria mente, insieme a quelli di tanti altri, oltre centoventi in scena, compresi musicisti e cantanti, più numerosi del solito (musiche di Francesco Giampaoli, parole di Lanfranco Vicari). Dice Dadina, il regista (oltre che fondatore e “anima” del Grande Teatro): Abbiamo affidato agli adulti il ruolo della famiglia Pandava, ai bambini quello del dio e agli spettatori quello dei nemici”.
Scelta vincente, forse obbligata, per quanto riguarda Krishna. A chi altri, infatti, se non a dei bambini, affidare in maniera credibile gli ammaestramenti del dio, ormai così difficili da comprendere per noi occidentali adulti, educati a una razionalità di piccolo cabotaggio, che confonde il giusto con l’utile personale, il reale con il visibile e il vero con le nostre credenze?
Krishna spiega ad Arjuna che non c’è altra via per lui, deve combattere perché quello è il suo dharma, cioè il suo dovere. Ma sbaglieremmo di grosso a prendere questa ingiunzione per un incitamento guerrafondaio, del tipo di quelli che oggi riecheggiano ovunque nel dibattito pubblico. Perché il dio qui non sta parlando della guerra come da sempre viene praticata purtroppo, cioè come un mezzo per acquisire prestigio, potere, ricchezze. Qui combattere è il modo in cui il guerriero adempie al suo destino, intraprendendo la strada che lo porterà alla consapevolezza e alla liberazione. Che sono esattamente il contrario di ciò che noi associamo solitamente alla guerra, perché presuppongono il distacco da ogni forma di interesse personale e da ogni passione:
“Per un guerriero non c’è cosa migliore di un doveroso combattimento. […] Vinto, otterrai il cielo: vittorioso godrai della terra. […] Piacere e dolore, perdite e acquisti, vittoria e sconfitta, tutte queste cose considerale uguali e accingiti a combattere. Così sarai immune dal peccato. […] Occupati solo dell’azione, non occuparti mai dei frutti. Non essere mai spinto ad agire dal frutto delle tue azioni. […] Colui la cui mente è imperturbata in mezzo ai dolori ed indifferente in mezzo ai piaceri, priva di passione, timore e ira, si dice allora di costui che è un savio di stabile pensiero”.
Partendo da quella che Schopenhauer considerava “l’opera più istruttiva e sublime che esista al mondo” (adattata come al solito da Tahar Lamri), il Grande Teatro di Lido Adriano ha confermato una volta di più quanto possa diventare potente il gioco del teatro, nonostante la sua apparente fragilità, nell’aiutarci ad affrontare le tragedie che incombono sulla nostra devastata quotidianità.