Non è certo vietando l’uso della tecnologia ai ragazzi che la si rende meno pericolosa
di Michele Canalini
“Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura di un male già tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono”: questo scriveva Leone XIII nelle conclusioni della sua Rerum novarum del 1891. Adesso, sostituiamo le parole “capitalisti e padroni” con educatori e insegnanti, e “proletari” con studenti; sottintendiamo, poi, la digitalizzazione al posto della questione del lavoro e avremo un’attualizzazione al Terzo millennio del problema principale sollevato dall’enciclica di Leone XIII alla fine dell’Ottocento.
Infatti, la recente ascesa al soglio pontificio del cardinale Prevost che ha scelto il nome di Leone XIV porta proprio a una riflessione sull’esigenza di un nuovo approccio ai cambiamenti della nostra società. Infatti, come il predecessore (nel nome) di Prevost, Leone XIII, sentì il bisogno di scrivere l’enciclica Rerum novarum per mettere in primo piano la necessità di un approccio differente (in quel caso della Chiesa) ai cambiamenti sociali del mondo del lavoro (con condanna però del socialismo), così oggi sarebbe necessaria la divulgazione di una sorta di “Rerum digitalium” per capire il modo di interfacciarsi alle criticità ma pure ai vantaggi della digitalizzazione del Terzo millennio.
Questo nuovo approccio, tra l’altro indicato nella formazione alla transizione digitale dello stesso personale, coinvolge specialmente il mondo della scuola, docenti e discenti: i primi si dovrebbero avvalere della tecnologia per proporre didattiche stimolanti e nuove sfide, i secondi dovrebbero impiegare i propri telefoni per fare qualcosa di diverso dallo “scrolling” ininterrotto su Tik Tok e social vari.
Per questo, il “proibizionismo” degli smartphone a scuola (ossia vietarne l’uso) si presenta come una misura limitata e senza dubbio poco risolutiva: pertanto, invece di considerare lo smartphone come lo strumento del rimbambimento digitale delle giovani generazioni, perché non lo rivalutiamo come uno strumento collaborativo, sia nella fase dell’apprendimento sia nell’ottica di un’educazione digitale dei giovani e pure degli adulti, a tutela di sé stessi e degli altri? Anche perché, una volta usciti dalla scuola, i nostri ragazzi riprenderanno comunque in mano l’amato e odiato device. Ma senza alcuna capacità certificata di padroneggiarlo.
Una ricerca recente ha dimostrato che una distrazione da smartphone, durante le lezioni in classe, comporta addirittura una perdita di ben mezz’ora prima di recuperare la concentrazione: dunque, non è il caso di rimodulare il tempo dell’attività scolastica su un uso intelligente e proficuo delle risorse digitali anche dei telefoni dei ragazzi? Mi rendo conto che non sia facile ma prima o poi bisogna farlo. Non è certo aggirando o vietando l’utilizzo della tecnologia che la si rende meno pericolosa o più mansueta per chiunque, adolescente o adulto.
Oggi viviamo in un’epoca radicalmente differente anche solo rispetto a vent’anni fa: è necessario prenderne atto e non tornare indietro, perché la storia ha sempre insegnato che i passi rivolti al passato non hanno mai funzionato. Le competenze sofisticate e complesse della nostra attualità si affrontano soltanto quando sono prese di petto e sono volte a migliorare la nostra vita di tutti i giorni; altrimenti, è solo un modo di rinviare un problema che, proprio con il passare del tempo, diverrà sempre più grande e irrisolvibile.