Quarant’anni dopo, Live Aid ci ricorda che la musica salva il mondo. E ora tocca alla Palestina
Passato alla storia come il concerto di beneficenza più grande di sempre, andò in scena oggi nel 1985, in contemporanea a Londra e a Philadelphia, il “Live Aid”: primo esempio di evento veramente globalizzato, organizzato da Bob Geldof e Midge Ure per raccogliere fondi contro la grave carestia che in quegli anni colpiva l’Etiopia causando centinaia di migliaia di morti. Secondo per importanza forse solo al “Concert for Bangladesh” di George Harrison e Ravi Shankar, e inseritosi nella tradizione già avviata pochi mesi prima dalla hit collaborativa “We Are the World”, la storica due giorni vide la partecipazione di oltre 70 artisti, con un pubblico televisivo stimato in quasi due miliardi di persone in 150 nazioni.
Con oltre 127 milioni di dollari raccolti (l’equivalente di 300-350 milioni odierni), il Live Aid ebbe il merito di dimostrare – questo sì, più di altri – il potere della musica nel sensibilizzare e mobilitare persone di ogni età e provenienza, unendole in vista di un’unica causa, aprendo inoltre la strada a iniziative simili, di poco o tanto successive, come il “Freddie Mercury Tribute Concert” del 1992, l’“America: A Tribute to Heroes” del 2001 o il suo seguito ideale “Live 8” (2005).
Celebre sì per il proprio impatto sociale, il “Live Aid” lasciò un segno altrettanto indelebile nella storia della musica, regalando ai presenti e agli spettatori la reunion dei Led Zeppelin – difficoltà annesse – con Phil Collins e Tony Thompson alla batteria, la straordinaria performance dei Queen, il duetto tra David Bowie e Mick Jagger nel brano “Dancing in the Street” e la famosa discesa tra il pubblico di Bono Vox degli U2 durante “Bad”, mentre molti altri non mancarono di manifestare il proprio disappunto per non essere stati invitati (Clash, Police, Prince, Duran Duran).
Svoltosi nella quasi assenza di artisti africani – relegati a contributi minori – il “Live Aid” fu anche teatro di molte polemiche: accusato di voler spettacolarizzare la tragedia che si proponeva invece di contribuire a risolvere, e caratterizzato da non pochi ritardi ed errori sotto il punto di vista tecnico e logistico, l’evento fu anche criticato – nelle persone dei suoi organizzatori – perché si tradusse in maniera molto meno impattante, con buona parte dei fondi raccolti mai giunti in loco, o dirottati dall’allora regime etiope per fini politici e militari, nonché per rafforzare il proprio controllo sul territorio.
Rimane comunque il fatto che, in un’epoca in cui le divisioni sembravano insuperabili, mentre il mondo continua a dividersi confrontandosi con nuove sfide e conflitti, il “Live Aid” torna a insegnarci che una nuova mobilitazione globale sarebbe non solo possibile ma auspicabile, per portare ad esempio attenzione e supporto alle popolazioni palestinesi. Di chi altri, se non noi, è fare in modo che ciò accada?