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La rinuncia alla lotta armata di Ocalan non significa certo la resa curda

Il conflitto tra governo turco e Partito dei lavoratori kurdi (PKK) dura da oltre quarant’anni e ha fatto decine di migliaia di morti. Una guerra crudele e fratricida
La rinuncia alla lotta armata di Ocalan non significa certo la resa curda
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Ho partecipato ad Istanbul, il 1 e 2 luglio scorsi, a una conferenza internazionale a sostegno della pace in Turchia. L’iniziativa era stata convocata dal Partito DEM, che costituisce la terza forza politica del Paese dopo l’AKP di Erdogan e il CHP del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu. Vi hanno preso parte oltre quarantacinque invitati di vari Paesi. Per l’Italia, delegazione particolarmente folta, erano presenti tra gli altri la deputata AVS Francesca Ghirra, e ben tre membri del Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia (CRED) e cioè i due Copresidenti (il sottoscritto e l’avvocata Michela Arricale) e il responsabile del Nord-ovest, avvocato Nicola Giudice.

Il conflitto tra governo turco e Partito dei lavoratori kurdi (PKK) dura da oltre quarant’anni e ha fatto decine di migliaia di morti. Una guerra crudele e fratricida provocata da profonde ragioni storiche, in particolare lo status di discriminazione ed emarginazione riservato ai Kurdi, specie a partire dall’instaurazione della Repubblica all’inizio degli anni Venti, avvenuta replicando pedissequamente il modello di Stato-nazione di derivazione europea. Protagonista di tale vicenda storica fu il Padre della Patria turca, Kemal Atatürk, che pure ebbe i suoi meriti (sovranità nazionale, laicità, modernizzazione).

Dopo quasi quarant’anni di scontri sanguinosi, il leader del PKK e del popolo kurdo, Abdullah Ocalan, il quale, nonostante sia relegato da oltre venticinque anni nell’isolotto di Imrali ha dato vita a una copiosa produzione intellettuale che gli è valsa il meritato appellativo di “Gramsci kurdo”, ha proposto la fine della guerra, accompagnata dallo scioglimento della sua organizzazione forte di migliaia di militanti ben armati e dalla riconsegna delle armi, scelte non facili e fortemente impegnative che sono state ratificate dal Congresso del Partito.

Si tratta di un processo di pace di fondamentale importanza che sta avendo effetti in tutta l’area medio-orientale, data la natura plurinazionale del popolo kurdo, che è presente anche in Siria, Irak e Iran, e la situazione di guerra permanente che la regione sta vivendo a causa delle sconsiderate imprese belliche e genocidarie del primo ministro israeliano Netanyahu.

Di particolare interesse la situazione del Nordest siriano, la regione della Rojava, dove le milizie dell’YPG e dell’YPJ (femminili) hanno sconfitto i tagliagole dell’ISIS, e hanno dato vita a un governo autonomo e multietnico, ma non separatista, che sta promuovendo una legislazione volta a garantire autogoverno, diritti delle donne e tutela ambientale.

La rinuncia alla lotta armata di Abdullah Ocalan e del PKK non significa certo la resa, ma al contrario lo spostamento della lotta su di un terreno pacifico e democratico, analogamente con quanto avvenuto di recente sotto altri cieli, ad esempio in Colombia, dove il negoziato di pace tra governo e FARC ha determinato una situazione nuova e certamente più democratica della precedente.

In Turchia un negoziato vero e proprio non è ancora cominciato, anche se oltre alla disponibilità del PKK, che proprio in queste ore si sta concretizzando colla riconsegna delle armi, va registrata la posizione dinamica assunta da forze interne al governo, come la destra nazionalista di Bahceli, quella di importanti settori imprenditoriali e soprattutto la volontà dei popoli della Turchia che sono decisamente stanchi di oltre quattro decenni di guerra.

Il presidente Erdogan, con la sua politica estera abile, ha certamente incrementato il prestigio e peso politico della Turchia nel mondo, ma deve affrontare una situazione economica di crescente difficoltà e non può certo illudersi di potersi sbarazzare dell’opposizione cogli arresti e la repressione, che hanno colpito, come da anni ho avuto l’occasione di testimoniare su questo blog, migliaia di cittadini appartenenti ai settori più disparati (avvocati come i miei amici dirigenti della CHD Selcuk Kozagacli e Aytac Unsal, intellettuali, giornalisti, sindacalisti, esponenti dell’opposizione) e da ultimo molti quadri dirigenti del principale partito di opposizione, il kemalista CHP a cominciare dallo stesso Imamoglu. Il processo di pace è quindi di estrema importanza per dare vita a una Turchia democratica.

Come ha affermato Michela Arricale in una sua recente intervista: “Quando Öcalan dichiara concluso il ciclo storico aperto con il ‘Manifesto della Rivoluzione del Kurdistan’ e ne annuncia uno nuovo, non sta solo aggiornando una linea politica, sta proponendo una grammatica completamente nuova di possibilità. Un modo diverso di immaginare la società, la lotta e la convivenza”. Un segnale di pace, insomma, dalla Turchia, ponte geografico e culturale tra Asia ed Europa, di grande significato nell’attuale cupo clima di preparazione alla guerra voluta solo dal complesso militare-industriale e dalle sue ben note propaggini partitiche e giornalistiche. Segnale che va rafforzato dando inizio alla fase negoziale vera e propria, cui lo stesso Ocalan deve partecipare in prima persona, disponendo dei necessari margini di libertà individuale.

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