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La protesta contro Bezos è giusta: ormai nello spazio urbano ogni presenza non commerciale è un intralcio

Viva chi rema contro il senso unico dell’esclusione. Chi rivendica il diritto di abitare, e non solo di affittare a ore, la propria città
La protesta contro Bezos è giusta: ormai nello spazio urbano ogni presenza non commerciale è un intralcio
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Liquidare la protesta contro il matrimonio kitsch di Jeff Bezos a Venezia come iniziativa di quattro attivisti rancorosi — gente di sinistra che odia i ricchi e non riconosce il “prestigio” di certi eventi — è un errore. Anche lo slogan rilanciato da Tommaso Cacciari, “Venezia è una città, non un fondale in vetroresina”, è sacrosanto, ma non basta.

Quello che accade in Laguna segnala un malessere profondo e diffuso. Le città si stanno trasformando in “spazi della negazione” — come li definisce l’urbanista Elena Granata — dove ogni gesto spontaneo è sospetto e ogni presenza non commerciale un intralcio. Luoghi in cui non si gioca, non si sosta, non si costruiscono relazioni. Già negli anni ’70 Henri Lefebvre descriveva lo spazio urbano come campo di forze, fatto di ordini e divieti; oggi quel campo è recintato, sorvegliato, affittabile. Dalle case vacanza alle nozze miliardarie, ogni momento è un “evento privato”, ogni piazza un “esproprio temporaneo”.

Non solo Venezia. A Roma è ancora in vigore l’ordinanza Raggi del 2019 che vieta di sedersi “per decoro” sulla settecentesca scalinata di Trinità dei Monti a Piazza di Spagna. Ai suoi piedi, però, il cafonissimo dehors della Babingtons Tea Room — prima sala da tè d’Italia, inaugurata nel 1893 — con fioriere, palmette moribonde, affissioni, stufe a fungo e recinti cordonati, — eclissa una delle prospettive più belle del mondo. Eleganza britannica? No: scenografia posticcia che ferisce Roma. Ma tutto è perfettamente lecito, purché ci sia lo scontrino.

Il decoro, si sa, è questione di portafoglio. L’albero di Natale 2024 firmato Bulgari, kitsch da centro commerciale sulla stessa scalinata, non offendeva nessuno. Neanche il fioraio che occupa la piazza come fosse un magazzino. L’adiacente via della Croce, trasformata in outlet turistico — limoncello, portachiavi, cibo veloce — è folklore. Ma un gruppo di turisti stremati che si siede sui gradini per riprendere fiato? Quelli sì, disturbano.

Wolf Bukowski chiama tutto questo “la buona educazione degli oppressi”: un disciplinamento che ci vuole docili, ordinati, invisibili. Si negano gli spazi di socialità fuori dal consumo. Si svuota la città delle sue funzioni vitali: l’incontro, l’imprevisto, le differenze. L’accessibilità e la bellezza dello spazio urbano — da secoli promessa implicita della città europea — vengono tradite. Non più luogo comune, ma vetrina blindata. Non più diritto, ma concessione a pagamento.

Per questo la protesta contro Bezos è giusta. Non si limita a contestare l’ostentazione del potere economico, ma rifiuta l’idea che lo spazio urbano sia proprietà privata e il cittadino un ospite tollerato. È un gesto collettivo, civile e necessario, contro chi governa le città come fossero resort o servizi di catering, e tratta i cittadini da clienti. E allora, viva chi manifesta. Chi rema contro il senso unico dell’esclusione. Chi rivendica il diritto di abitare, e non solo di affittare a ore, la propria città.

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