I manager dei maggiori gruppi mondiali in missione a Washington contro la sovrattassa su investimenti e redditi degli stranieri
I manager di alcuni dei maggiori gruppi mondiali calano su Washington per fare lobbying contro la tassa ritorsiva prevista nel Big beautiful bill. La Sezione 899 del disegno di legge caro a Donald Trump, se approvata anche dal Senato Usa senza modifiche, aprirebbe la strada a un inasprimento fiscale sugli investimenti esteri negli Stati Uniti da parte di Paesi che applicano politiche fiscali ritenute “punitive” nei confronti di Washington. Con ovvi effetti negativi su cittadini e imprese stranieri, che subirebbero una sovrattassa fino al 20% su redditi, interessi, dividendi e rendite immobiliari, ma anche un effetto boomerang sui posti di lavoro nel Paese. Così, racconta il Financial Times, “decine di dirigenti di alcune delle più grandi aziende del mondo” di proprietà straniera, da Shell a Toyota a Lvmh passando per banche come Hsbc, Ubs e Bank of China, si apprestano a incontrare i membri del Congresso per chiedere una marcia indietro.
Jonathan Samford, presidente della Global Business Alliance, parlando al Ft si è detto convinto che sempre più senatori repubblicani siano già dell’idea che la misura sarebbe controproducente. Secondo l’Institute of International Bankers, che chiede come minimo un rinvio di un anno e la riduzione del balzello del 5% l’anno, un intervento del genere “soffocherà gli investimenti diretti esteri, rischierà di sconvolgere i mercati finanziari e metterà a repentaglio i posti di lavoro americani”. Qualche dato aiuta a capire il contesto: le banche straniere hanno prestato più di 1.300 miliardi di dollari ad aziende Usa nel 2023, ricorda il Ft, e i loro finanziamenti ad aziende internazionali hanno sostenuto 5.400 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri negli Stati Uniti da parte di aziende con sede all’estero, generando 270 miliardi di dollari di entrate.
In cima alla lista dei Paesi accusati di applicare imposte “ingiuste” e quindi a rischio di ritorsione ci sono i 27 membri della Ue, che applicano la tassa minima globale del 15% sulle multinazionali e alcuni dei quali hanno adottato web tax. Nel mirino anche il Regno Unito, l’Australia, il Canada.