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Le ‘Zattere’ di Francesco Faccin: l’ordinario è precario, non dimentichiamoci di naufragare

Lo stesso Platone, che ha eletto la navigazione a baricentro metaforico della propria filosofia, fa riferimento alla zattera per definire la condizione umana
Le ‘Zattere’ di Francesco Faccin: l’ordinario è precario, non dimentichiamoci di naufragare
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Zattere. Allegorie di progetto, l’ultimo libro di Francesco Faccin – spericolato esploratore di mondi/cose/strumenti – parte da una constatazione già di per sé programmatica. Come spiega la tettonica delle placche, “il suolo che calpestiamo è in realtà una gigantesca zattera che si sposta, fluttuando” sul mantello superiore. Per dire che la zattera, filo conduttore del volume, non è soltanto l’oggetto che tutti conosciamo, ma una condizione primaria dell’esistenza. Inutile credere che la vita umana si svolga su basi salde, tranquillamente ancorata alla terraferma. L’ordinario è fatto di precarietà, di presupposti misteriosi ed insondabili, di scelte da intraprendere senza poter conoscerne in anticipo le conseguenze, con ispirata avventatezza. E che richiedono intuizione più che calcolo, grande capacità d’invenzione e talora anche l’illuminante semplificazione della disperazione. Tutta la Comédie humaine è la storia di un perpetuo naufragio; tuttavia, come amava ripetere il filosofo che invita a “vivere pericolosamente”: Naufragium feci: bene navigavi. Nella traduzione progettuale di Faccin: l’essenziale è “non dimenticarci di naufragare”.

Lo stesso Platone, che ha eletto la navigazione a baricentro metaforico della propria filosofia, fa riferimento alla zattera per definire la condizione umana. Nel Fedone egli invita infatti a “varcare a proprio rischio il gran mare dell’esistenza come su di una zattera, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l’aiuto di una rivelazione divina”. Non essere dèi significa trovarsi su una zattera e dover ripensare la propria vita a partire da quest’assoluta, vacillante contingenza.

Diventa a riguardo decisiva l’avventura di Odisseo che apre la casistica del libro, riprendendo la narrazione della costruzione della zattera che permetterà all’“eroe artigiano” di lasciare Ogigia e la sua irresistibile carceriera Calipso. Odisseo coniuga metis, la proverbiale ‘intelligenza’, con un’iniziativa progettuale efficace. Pro-meteico – il carattere archetipico del fare umano – significa anzitutto previdente. Non esiste sapienza fuori dalle cose.

Dopodiché il libro si sviluppa concedendo una sezione ciascuna ad occasioni in cui la zattera ha voluto riproporsi, non solo ‘didascalicamente’, bensì ogniqualvolta un oggetto ‘design-ato’ ne evochi allegoricamente – di qui il sottotitolo – la prestazione progettuale. Così zattera possono dirsi, di volta in volta: il Great Pacific Garbage Patch, l’agglomerato di rifiuti plastici che, come un’isola sintetica, va alla deriva nel vortice subtropicale del Pacifico del nord; l’artigianale mongolfiera di taffetà che permise alla famiglie Strelzyk e Wetzel di varcare rocambolescamente in volo – sopra una vera e propria “zattera volante” – il confine tra le due Germanie; il cammello d’acciaio (o, volendo, “zattera a due ruote”) in cui Emile Leray, ‘naufrago’ nel deserto del Marocco, riconvertì la sua Citroën 2CV in panne, alleggerendo il mezzo di ogni meccanismo superfluo e riuscendo infine a salvarsi…

Tra i vari spunti che il testo offre, mi piace riprenderne uno, perché particolarmente ‘estremistico’ o forse soltanto perché, non appena Faccin mi ha confessato di aver scritto un libro sulle zattere concepite per ordinarie imprese straordinarie, la mia prima reazione è stata: ma hai incluso il Kon-Tiki di Thor Heyerdahl? Ovviamente, l’aveva incluso.

La storia è celeberrima. Alcune affinità etnoantropologiche tra le popolazioni indonesiane e amerindie avevano portato l’esploratore norvegese a sospettare un contatto in tempi antichissimi tra le reciproche civiltà. La comunità scientifica si dichiarò fin da subito scettica sull’ipotesi: l’eccessiva distanza, unitamente alle rudimentali tecniche nautiche dell’epoca, rendeva altamente improbabile un’influenza diretta. Così Heyerdahl, sfidato, costruì un’imbarcazione con nove tronchi di balsa, legati con liane, legno di bambù e foglie di palma, in tutto identica a quella che avrebbero potuto costruire quei precursori primordiali. Poi si avventurò in un viaggio che ripetesse la rotta migratoria ipotizzata: 101 giorni e 4300 miglia di navigazione, un “galleggiare disperato e pazzesco” senza l’uso di alcuna strumentazione moderna, fino ad incagliarsi… nell’atollo Raroia in Polinesia!

La teoria riscontrava nei fatti la propria prova. Faccin, esplicitandone i fondamenti, fa riferimento alle “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni” del metodo galileiano: dev’esservi piena coerenza tra i dati empirici rilevati e i modelli teorici, espressi in linguaggio scientifico-matematico, che li rappresentano.

Ma, lasciandoci sedurre da una possibile genealogia ancor più a ritroso del ‘costrutto’ zattera/navigazione, potremmo risalire al kybernétes, il ‘pilota di navi’ menzionato nella Repubblica (489 c). “Ma non sbaglierai – argomenta Platone – se paragonerai gli odierni governanti degli stati a quei marinai che poco fa dicevamo, e ai veri piloti coloro che da questi marinai sono detti gente inutile e cianciante in aria”.

Ci piace allora immaginare lo ‘zattiere universale’ come un’ibridazione del kybernétes col bricoleur lévi-straussiano, che sa servirsi all’occorrenza di ogni cosa. La sua strategia di innovazione, che guarda avanti rimediando strumenti e metodi da quanto è già ready to hand, letteralmente: sottomano, è un’avveduta teoria degli assemblaggi: cibernetica radicale capace di rispondere con l’immaginazione all’eroico ‘stato di necessità’ cui l’esistenza del sapiens è condannata. Alternative, peraltro, non ce ne sono: “in fondo se smettiamo di progettare cos’altro ci resta?”.

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