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Tornano gli Shalalalas, una band che è una macchina del tempo

Non è facile restare in piedi per dieci anni quando fai musica onesta, quella senza manager visionari. Sara e Alex non cercano di piacere a tutti, non vendono auto-tune
Tornano gli Shalalalas, una band che è una macchina del tempo
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A volte una band è una macchina del tempo con le cinture slacciate. Gli Shalalalas, Sara e Alex, salgono a bordo in due, senza casco, senza navigatore. Chitarre in mano, cuore in gola, suonano come se ogni canzone fosse l’ultima che potranno permettersi. Del resto non è facile restare in piedi per dieci anni quando fai musica onesta, quella senza manager visionari a suggerirti quanti “na-na-na” ci vogliono per commuovere un algoritmo.

Gli Shalalalas sono ancora qui con le cicatrici ben visibili sotto gli accordi: i due hanno iniziato prendendosi a cazzotti in una palestra al Nuovo Salario, che già sembra la sinossi perfetta per una band di culto, poi “qualche anno dopo – raccontano – complice una jam session e qualche drink di troppo, abbiamo deciso di formare The Shalalalas”, e ora, a dieci anni di distanza da quel primo LP acustico e sognante che era There are 3 las in Shalalalas, tornano con Just the Way We Do, un album composto da dieci brani dalle sonorità rock, indie-pop e dream-folk.

Ascoltarlo è come trovare un nastro dimenticato in un’autoradio scassata, dentro una Panda del ’98 parcheggiata a San Lorenzo con le gomme sgonfie. Dentro ci trovi dieci canzoni che non vogliono piacerti, non vogliono venderti nulla, non ti fanno promesse. Il disco è un collage emotivo di presente e passato: sei brani nuovi, con la produzione fedele di Fabio Grande, e quattro pezzi storici riarrangiati con il cuore in gola e amici fidati (Bengala Fire, Cesare Petulicchio dei Bud Spencer Blues Explosion, Aurora D’Amico). È come sfogliare un diario scritto su carta da pacchi e inciso su vinile: ruvido, sgrammaticato ma bello.

“It’s Time” apre il disco come un pugno nel petto – lento, solenne e sincero, come l’attimo prima di un bacio che cambia tutto. “Stay”, invece, ti scaraventa nella stanza dopo quel bacio, quando resti lì, nudo e vulnerabile, a sperare che resti. “Crazy, Again” è il pezzo più rock, con atmosfere anni Novanta, mentre in “Waterfall” ci puoi annegare, se vuoi – e in fondo è questo che fanno meglio gli Shalalalas: ti portano in un posto in cui puoi sentire, davvero. E se ti perdi, ti ci lasciano un po’. I vecchi brani, invece, sembrano rifatti con la stessa cura con cui si bacia un amore ritrovato. “Let’s Shalalala”, remixata con l’energia garage dei Bengala Fire, è un’ode all’incoscienza dei primi giorni, quando ancora credevi che le cose belle potessero durare. “Hold Me Tight”, riletto da Cesare Petulicchio, è un delirio elettronico alla Bristol, in bilico tra trip-hop e psichedelia da sbornia lucida. E poi c’è “Me and Terry”, ballata intima rivisitata con Aurora D’Amico che sussurra all’orecchio di un’amicizia che non muore, anche quando sembra evaporata.

Just the Way We Do è un titolo arrogante e umile allo stesso tempo. È come dire: “Ci dispiace se non vi piace, ma è così che lo facciamo. È così che siamo”. Non cercano più di piacere a tutti. Non vendono auto-tune. Non offrono comfort sonori.
E in un’epoca in cui ogni canzone è costruita come una landing page, dove ogni accordo è un’opzione di marketing, gli Shalalalas ti ricordano che la musica vera non si fa per diventare famosi. Si fa perché, se non la fai, muori un po’.

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