Davanti a una politica che attacca e non riforma, il teatro e il cinema europei si riscoprono militanti

Che lo spettacolo sia diventato ‘la prosecuzione della politica con altri mezzi’, per parafrasare la celebre sentenza di von Clausewitz, viene il sospetto oggi in Italia; non solo considerando l’ultimo battibecco del ministro Alessandro Giuli con Elio Germano, con gli influencers o i comici ‘di sinistra’.
In effetti basta essere spettatori appassionati per cogliere il prepotente ritorno all’impegno politico e ai temi più caldi relativi alla collettività, per esempio nel cinema europeo, più ancora che nel nostro, con casi di successo come quello del regista svedese Ruben Östlund, con il suo crudissimo realismo anti-borghese. L’apertura decisamente engagé del festival di Cannes – con la sparata di De Niro contro Trump, l’intervento pro-Pal di Juliette Binoche e ancora le varie stoccate ai vari partiti sovranisti – è soltanto l’ultima conferma di una tendenza.
Ancor di più il teatro, per vocazione originaria di ruolo rispetto alla ‘polis’, sembra ormai aver riscoperto un ruolo proprio militante, con casi limite come il prolifico autore-regista-organizzatore Milo Rau, intellettuale svizzero-tedesco che da qualche stagione ha scelto di dedicarsi addirittura all’organizzazione della Nuova Resistenza contro le risorgenze fasciste in Europa. Anche le nuove figure femminili che animano la scena francese, per fare un altro esempio che rimbalza a volte sui palcoscenici italiani, sono fortemente caratterizzate da poetiche dell’impegno politico.
All’avanguardia sembra comunque esserci oggi addirittura un intero filone di nuovi artisti militanti, quasi sempre molto indirizzati ai linguaggi multimediali e cosiddetti ‘performativi’, cioè che utilizzano in parte anche danza, musica e teatro, per produrre veri e propri interventi politici d’attualità. Basta guardare il nuovo festival LIFE a Milano, proprio in questi giorni alla Fabbrica del Vapore (e poi in vari teatri fino alla seconda metà di giugno), organizzato dall’associazione culturale Zona K che ha sempre puntato a valorizzare queste nuove forme d’espressione che si potrebbero definire di ‘teatro documentario’ ma che si collocano a cavallo persino con il giornalismo d’inchiesta.
E’ in questo ambito soprattutto che sono cresciuti i nuovi protagonisti più considerati sulla scena europea, anche italiani, come i bolognesi Kepler-452, passati anche dal festival LIFE con il diario dell’ultimo lavoro sulle navi dei volontari nel Mediterraneo. Tra gli eventi più attesi, il ritorno in Italia del collettivo belga Ontroerend Goed, con uno spettacolo interattivo che ha per tema proprio la crisi della democrazia (‘Fight Night’) e la ripresa del capolavoro sulla propaganda e la menzogna degli Agrupación Señor Serrano, ‘The Mountain’.

Paesi più aperti all’innovazione culturale, come l’Olanda, affidano addirittura il padiglione ufficiale di una Biennale veneziana a un artista performativo che più militante di così non si potrebbe, come Dries Verhoeven. Proprio Verhoeven ha aperto la rassegna milanese di Zona K con un’inquietante installazione che inneggiava a quello che nel Settantasette si definiva ‘l’esproprio proletario’ dei supermercati.
Questo è il quadro di riferimento. Ma, per tornare alle parafrasi sulla guerra e la politica, pescando dal ribaltamento di von Clausewitz che fece il filosofo tedesco Carl Schmitt – autore che a Giuli dovrebbe pur essere caro – si può dire che lo spettacolo oggi stia diventando ‘il presupposto sempre presente della politica come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico’. Così è stato forse dall’inizio della nostra civiltà, se si parte dalla Grecia: solo che oggi lo si nota in modo ancor più stridente forse proprio per i vuoti di contenuto della politica stessa, dove quel che resta dei partiti e un po’ tutti i rappresentanti sembrano sempre le tre scimmiette, sordi, ciechi e muti, rispetto al mondo vero delle persone.
Il tema su cui si dovrebbe concentrare un buon ministro della Cultura, invece di perder tempo con l’egemonia culturale provando a rimbeccare gli attori o i filosofi, sarebbe quello proprio di rifondare il sistema istituzionale pubblico faraonico e costosissimo, con in testa le varie Fondazioni, che è lo specchio esatto del mondo del potere, distante dalla realtà delle persone, lobbistico e pure vecchio nel senso d’incapace di produrre novità e men che meno ricambio generazionale. Ma anche questa pur orgogliosa e ardimentosa ‘nuova destra’ al potere sembra aver scelto, invece che di riformare alla radice il sistema, la strada più facile di contro-lottizzare le istituzioni culturali, e casomai di ridimensionare con attacchi personali l’immagine dei talenti più dichiaratamente ‘d’opposizione’ (nel senso che un Germano, al di là del film su Berlinguer, non si può certo considerare organico alla sinistra politica parlamentare).
Vi è poi da considerare anche l’aspetto squisitamente di gusto estetico, che peraltro accomuna le nomenclature di tutte le bandiere di partito. Non è che si vedano seduti in poltrona a seguire un buono spettacolo teatrale tutti questi onorevoli e senatori: eccezione alla regola, la presenza recente al Piccolo Teatro giusto della titanica Liliana Segre per la prima de ‘Il Vertice’ di Christoph Marthaler, una pièce eccellente e grottesca di critica proprio del degrado delle élite europee.
Non è che si debba per forza riuscire a comprendere un genio alla Beckett e men che meno apprezzare sempre il teatro documentario o militante: lo stesso ‘comandante Milo Rau’ non va giù nemmeno ai critici colti del quotidiano comunista, per citare il caso forse più noto. Ma non è che ci siano soltanto le platee di Checco Zalone, vivaddio!, ed è pur sempre la semina delle idee che può cambiare il mondo.