A più di un mese dal suo insediamento, cosa possiamo dire della nuova Trumpeconomics? I suoi caratteri sono ormai abbastanza delineati e potremmo parlare di una visione ispirata a un genere letterario molto importante nel continente latino americano, quello del realismo magico. Nella cornice dei testi ispirati ad esso, ad esempio in Jorge Luis Borges o in Gabriel García Márquez, gli elementi reali e fantastici si mescolano insieme e creano un’atmosfera di mistero e seduzione. Anche nella nuova Trumpeconomics finzione e realtà non sono distinguibili e anzi altri nuovi elementi fantastici sono stati aggiunti alla narrazione.

Non troviamo più solo il tema classico, logoro e mai verificato, che la riduzione delle tasse aiuterebbe la crescita economica. Ora a questa fantasia conservatrice se ne aggiungono molte altre. Per esempio, troviamo la religione dei dazi per la quale, imponendo delle tariffe doganali alle importazioni, si potrebbe miracolosamente tutelare la produzione americana e con il ricavato ridurre l’imposta sul reddito. In fondo, fino a fine Ottocento il bilancio dello stato americano era finanziato dalle imposte sui consumi, tabacco e alcol in testa. Trump vorrebbe tornare a quei vecchi tempi. In questa nuova letteratura trumpiana un elemento di spicco è la battaglia contro l’Iva, l’imposta sul valore aggiunto applicata da tutti i paesi, Usa esclusi.

Come è noto l’Iva è l’imposta su consumi e sulle prestazioni professionali, acronimo per imposta sul valore aggiunto. Ad ogni fase della produzione viene creato valore, il famoso valore aggiunto, e su questo si applica l’imposta. È entrata nel nostro ordinamento appena nel 1973 e ha sostituito l’Ige (imposta generale sulle entrate) che invece si applicava al valore complessivo ad ogni passaggio, contribuendo ad aumentare in maniera distorta il prelievo. Per questo si dice che l’imposta è neutra per il produttore, che scarica l’Iva sugli acquisti e versa quella delle vendite. Imposta neutrale significa che ricade completamente sul consumatore finale, come tutte le imposte indirette. Per gli amanti delle statistiche, nel 1973 l’aliquota dell’Iva ordinaria era del 12%, ora è del 22%. Anche questo è un aspetto della crescente iniquità del nostro sistema fiscale, essendo l’Iva un’imposta fortemente regressiva tassando i consumi.

Va da sé che le imprese che esportano sono esentate dal pagamento di quest’imposta che viene pagata dai consumatori del paese di arrivo. Il cliente americano che acquista un mobile italiano non paga l’Iva italiana, ma l’imposta sui consumi del suo stato. Il rimborso poi dell’imposta per l’esportatore italiano è perfettamente giustificato dal fatto che ha pagato l’Iva sugli acquisti. Nessun sussidio insomma. Ma cosa accade invece all’esportatore americano e perché non ottiene un rimborso dell’Iva? Semplicemente perché l’Iva nel sistema tributario americano non esiste. Si paga solo un’imposta sui consumi finali e non sul valore aggiunto. In definitiva sarebbe strano, cioè un caso di concorrenza sleale, se l’impresa americana che esporta in Italia venisse esentata dall’Iva come vorrebbe Trump. L’Iva non è un sussidio alle esportazioni e nemmeno una tassa sulle importazioni. Perché allora Trump ripete che l’Iva è un’agevolazione fiscale per le imprese europee e una penalizzazione per quelle made in Usa?

Le motivazioni sono numerose e vanno dalla malafede fino all’ignoranza economica, con le solite gradazioni di cui il presidente Usa ha dato ampia testimonianza. Ma forse il fatto fondamentale è che la tassa finale sui consumi (la sales tax Usa) è molto più bassa negli Usa rispetto all’Iva europea. Per fare un esempio, a New York è di circa l’8,9%.

Quindi se nel suo realismo magico Trump pensa di risollevare le sorti del commercio del suo paese introducendo dei dazi doganali, lo può fare finché l’economia, la borsa valori o il Congresso lo fermeranno in questa impresa ingenua e irrazionale. Ma non cerchi una facile scusa nell’applicazione dell’Iva da parte dei partner commerciali. Qui l’Iva non è minimamente in causa. Casomai si dovrebbe riflettere sul fatto che gli Usa sono gli unici ad avere un sistema di tassazione dei consumi così arcaico e inefficiente.

Comunque rimane il fatto che il realismo magico come prospettiva per creare un romanzo o un racconto può essere sicuramente interessante. Come base per la politica economica che riguarda il benessere di milioni di persone rischia di trasformarsi in un totale disastro. Ma Trump ha già pronto il suo piano B. Se le cose vanno male spera che molti ricconi al mondo si compreranno la cittadinanza americana per la modica cifra di 5 milioni di dollari a testa. Cominciare a vendere i gioielli di famiglia, cioè la cittadinanza, comunque non è un buon segno anche per un esperto venditore di chiacchiere come Mister Trump.

Le finanze pubbliche Usa saranno salvate dai milionari di tutto il mondo? Staremo a vedere.

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