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Boris Nemtsov, dieci anni dopo è ancora mistero sull’assassinio del caparbio oppositore di Putin

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La sera del 27 febbraio 2015, l’ex vicepremier Boris Nemtsov, caparbio oppositore di Putin, assieme alla giovane compagna, la 24enne modella ucraina Anna Durytska, uscì dal ristorante in cui avevano cenato, attraversò la Piazza Rossa e decise che sarebbe stato più romantico tornare a casa a piedi, mano nella mano, invece di prendere un taxi. Boris aveva 55 anni, era affascinante, l’aspetto ancora giovanile: un personaggio brillante e socievole, grande affabulatore, e discreto “tombeur de femmes”. Era membro della Duma regionale di Jaroslav, leader di un piccolo partito liberale, l’RPR-Parnas. Ben lontani i tempi in cui era considerato il “delfino” di Eltsin, addirittura potenziale candidato alla sua successione, opzione che dopo misteriose consultazioni fu sciolta a favore di Putin.

Ormai, il suo peso politico si era oggettivamente ridotto, né poteva essere altrimenti, in un regime a senso unico, con l’opposizione tacitata, emarginata e costretta all’esilio per evitare di finire sotto terra. Inoltre, l’oscurava un po’ l’avvento di Alexei Navalny, l’oppositore sempre più popolare tra i giovani nerd e tra i professionisti delle grandi città. Eppure, il carisma di Boris resisteva al declino politico, perché conservava quella carica idealista che lo aveva portato alla ribalta fin da giovane (un giovane elegante nei modi, di raffinata cultura, di vedute moderne), quando, proveniente dall’alta nomenklatura sovietica – era un pronipote del bolscevico Yakov Sverdlov – aveva sostenuto Eltsin sin dal 1991 e militato attivamente per una democratizzazione dello Stato e per un equilibrato trapasso dal comunismo, al punto che nel 1997 venne nominato vice primo ministro, guadagnandosi la stima dei russi giacché era considerato uno dei pochi politici non corrotti.

Mentre Boris e Anna camminavano lungo il marciapiede del ponte Bolshoi Moskovoreckij, a due passi dalle mura del Cremlino, un’automobile scura accostò pochi metri dietro, senza che la coppia se ne accorgesse. Pochi secondi dopo Anna sentì – così raccontò – uno scoppio attutito, e la mano di Boris che lasciava di colpo la sua. Qualcuno aveva sparato alla schiena di Boris con una pistola silenziata. Quattro colpi. Un altro nemico di Putin era stato liquidato. Come Anna Politkovskaja, il 7 ottobre 2006, nel giorno del compleanno di Putin (guarda la coincidenza…).

Stavolta, però, era la prima volta che in Russia veniva ucciso un politico tanto in vista, pur se ai margini del potere, e l’establishment di Mosca restò traumatizzata. Fin dalle prime ore del mattino successivo, fu un continuo pellegrinaggio al ponte Moskovoreckij. Cinquantamila persone sfilarono per le strade di Mosca sventolando bandiere russe e reggendo grandi ritratti del defunto, senza che le forze dell’ordine intervenissero. Al funerale, la folla raddoppiò. Come l’indignazione dei moscoviti.

L’imbarazzo delle autorità fu evidente. Putin stesso era furibondo: qualcuno aveva agito senza la sua diretta approvazione, e senza soprattutto calcolare le conseguenze dell’attentato. Nelle dinamiche interne al Cremlino, questo poteva incrinare il suo potere assoluto. Paradossalmente, Nemtsov morto riusciva ad essere più pericoloso che vivo. Il 6 marzo, a una settimana dall’omicidio, Putin sparì dalle scene, ufficialmente perché influenzato. In realtà, come d’abitudine, per decidere cosa fare. Il giorno successivo gli uomini dell’Fsb, i servizi di sicurezza eredi del Kgb, e del comitato d’inchiesta appena creato (CK), guidati dal suo onnipotente direttore Alexander Bastrykin, bestia nera dell’opposizione (Alexei Navalny aveva pubblicato alcune inchieste sulle sue occulte attività commerciali in Repubblica Ceca), arrestarono cinque uomini, tra i quali il presunto killer Zaur Dadaev, membro del famigerato battaglione Sever di Ramzan Kadyrov.

Il presidente ceceno reagì immediatamente, con un messaggio su Instagram, difendendo a spada tratta Zaur: in realtà, era soltanto manovalanza. Il processo aggiunse nebbie sui mandanti. I cinque furono condannati all’ergastolo. La verità restò sospesa. Come tante cose, in Russia. La Novaja gazeta, il giornale su cui aveva scritto la Politkovskaja, infierì: “Potere significa il diritto di usare metodi violenti senza essere puniti. Chi resta impunito è chi governa”.

In verità, Nemtsov non era poi così tanto innocuo. Dava parecchio fastidio al Cremlino. Percepito come uomo del passato eltsiniano, aveva mantenuto e corroborato la reputazione di serio e documentato analista. Sapeva come orientarsi nei dipartimenti statali e sfruttare le inevitabili crepe all’interno degli apparati di governo. Parecchi suoi rapporti sulla corruzione ai vertici del potere avevano avuto un notevole impatto ed erano stati ripresi dai media esteri, contribuendo a peggiorare la già precaria immagine del regime. Secondo Nemtsov, Putin era “ossessionato” da un progetto: ripristinare le vecchie frontiere dell’Unione Sovietica, a costo di entrare in conflitto con Ue e Stati Uniti.

Proprio pochi giorni prima di venire ucciso, Nemtsov aveva annunciato la redazione di un clamoroso rapporto sugli interventi russi in Crimea, nel Donbass e in Ucraina, sino a quel momento negati (aveva raccolto le prove che i militari russi avevano operato, senza uniforme, sui territori ucraini spalleggiando le formazioni indipendentiste). Quel rapporto è poi scomparso. Anni prima, Nemtsov aveva preso di mira i Giochi Invernali di Soci (città in cui era nato), la “vetrina” che nei piani di Putin avrebbe dovuto consacrare il despota agli occhi del mondo. Boris ne rivelò i costi faraonici e la corruzione fenomenale.

Nel dossier, scritto assieme ad un altro oppositore, Vladimir Milov (“Il progetto olimpico di Putin è un grandioso furto e un irreparabile colpo affibbiato all’ambiente”), si descriveva con implacabile minuziosità la gigantesca dilapidazione di beni, risorse e finanze statali: i contratti erano stati distribuiti alla cricca putiniana per dei lavori dai costi sopravvalutati. Il preventivo delle Olimpiadi era di 12 miliardi di dollari, salì a 50. Una mangiatoia indecente. Il peggio fu scoprire che la strada e la ferrovia di 48 chilometri, snodate attraverso tunnel e ponti dal Parco olimpico principale di Soci, sul Mar Nero, sino agli impianti sciistici in alta montagna, era costata 9,4 miliardi di dollari, “tre volte e mezzo la somma spesa dalla Nasa per inviare una sonda su Marte”, chiosò Nemtsov.

Denunciare la cleptocrazia era una questione centrale per Nemtsov, a cominciare dall’asset siphoning, la sottrazione di risorse. Sfruttava informazioni sensibili relative alle strette alleanze finanziarie tra gli uomini di Putin e gli oligarchi, gli arricchimenti illeciti, i sospetti incroci societari. L’ex vicepremier diffidava dell’ex tenente colonnello del Kgb: “Gli oligarchi degli anni Novanta hanno smesso di essere oligarchi e sono appena tornati ad essere uomini d’affari. Ora abbiamo gli oligarchi cechisti”.

Già nel 1999, Nemtsov aveva detto che Putin “avrebbe condotto la Russia fino alla guerra e alla crisi” (era in ballo l’intervento in Cecenia), perché a capo del Paese c’era chi aveva guidato l’Fsb. Mi disse che strumentalizzando il passato della Russia, le aveva rubato il suo avvenire. Addirittura aveva cercato di fermare la guerra nel Caucaso invitando a sottoscrivere una petizione in cui si chiedeva il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia. Pure la Politkovskaja aveva cercato di fermare la seconda guerra cecena, e forse anche per questo era stata ammazzata nell’androne di casa, a Mosca.

Con altri oppositori (per esempio, Garry Kasparov e l’emergente Navalny), Nemtsov fu una delle figure più rappresentative dei grandi movimenti di contestazione contro i vistosi brogli elettorali del 2011 e del 2012. Nel 2014, inoltre, era stato in prima fila organizzando grandi manifestazioni di protesta contro la guerra in Ucraina e l’annessione della Crimea.

In politica, l’attivismo di Nemtsov lo aveva portato a fondare, nel 1999, con l’influente economista Anatolij Chubais che era anche stato uno dei consiglieri più fidati e ascoltati del presidente Eltsin, l’Unione delle Forze di Destra, di ispirazione liberale. Poco prima delle elezioni presidenziali del 2008, forse le più contese per via del secondo mandato di Putin (non era consentito aggiungerne un terzo consecutivo), Chubais distrusse la carriera di Nemtsov sciogliendo il partito e confluendo a Causa Giusta, una formazione controllata dal Cremlino. In cambio, ottenne dal nuovo presidente Medvedev la testa di Rosnano, l’agenzia statale per lo sviluppo delle nanotecnologie russe.

In realtà, Medvedev (e il suo mentore Putin, divenuto premier) non si fidavano di Chubais, al quale affidarono un ruolo ancor più secondario, quello di assistente del presidente per i rapporti internazionali in materia di sviluppo sostenibile. Chubais, fiutata l’aria malsana che lo stava soffocando, fuggì poi in Italia. Il tradimento di Chubais indusse Nemtsov a contattare chi, come lui, sognava un capitalismo senza corruzione (utopia…), voleva svelare le relazioni perverse tra gli oligarchi delle imprese private e lo Stato russo, chi pensava che la formula più sana per il Paese fosse quella di rilanciare la competizione economica liberandola dai cappi dei 6mila clan mafiosi che controllavano il quaranta per cento delle aziende, di restaurare il diritto di proprietà sistematicamente violato da corruzione e dalla pratica delle espropriazioni. Un programma vasto, ambizioso, che perseguiva il donchisciottesco obiettivo di malmenare il torbido mondo degli affari russi.

Con Kasparov e Evgenia Albats, giornalista investigatrice del The New Times, scrisse una lettera di raccomandazione per aiutare Navalny a partecipare al programma Yale World Fellows della prestigiosa università americana. Nemtsov sperava nell’unità delle opposizioni, si prodigava in questo senso. La litigiosità politica russa, mi spiegò – era il 2009 – è quasi una tradizione, si perpetuava nelle varie epoche, e nel caos comunque, aggiungeva non senza orgoglio, “la Russia sopravvisse all’invasione napoleonica, alla fine dell’Impero zarista, all’aggressione hitleriana, a sette decenni di comunismo, ai gulag, alla perdita dei Paesi satelliti nell’est europeo, alla dissoluzione dell’Urss. Spero che sopravviva all’era putiniana. Ma in che stato?”.

Un altro legame caratterizzò l’impegno di Nemstov: quello con Vladimir Kara-Murza, che diventerà figura di spicco dell’opposizione, se non la più importante dopo la morte di Navalny. Accusato d’alto tradimento per aver criticato il potere russo durante cinque discorsi in eventi pubblici all’estero (due contro la guerra in Ucraina, due contro la repressione e uno sull’illegittimità di Putin), condannato a 25 anni, tenuto in isolamento continuo per quattro mesi, liberato il primo agosto del 2024 con altri 15 oppositori, nel più grande scambio di prigionieri con l’Occidente dal tempo della Guerra Fredda. Nel 2009 decide di occuparsi della tragica vicenda di Sergei Magnitski, un giurista che aveva dimostrato il coinvolgimento di membri dei servizi di sicurezza in un giro di estorsioni, la cui vittima principale era l’affarista americano Bill Browder. Magnitski morì nel 2009 per le percosse che subiva ogni giorno in prigione, dopo un processo farsa.

Kara-Murza era un giornalista rispettato e famoso, il primo a far parlare una gola profonda del Cremlino sul tema scottante del “palazzo di Putin”. L’incontro con Nemtsov l’aveva incitato ad impegnarsi in politica, schierandosi con l’opposizione liberale. Il suo attivismo fece adottare, negli Usa ma anche in altri Paesi, le cosiddette “leggi Magnitski”, all’inizio esplicitamente dirette contro i responsabili della morte del giurista, poi destinate anche a sanzionare le violazioni dei diritti dell’uomo e vigorosamente contestate dalle autorità russe, che hanno speso milioni in conti di lobbisti e avvocati.

Essere russi comporta un dolore impossibile da negare e che non si confonde con nessun altro, ha detto la poetessa russa Maria Stepanova. Nemtsov era profondamente russo. Si chiedeva spesso se l’anima russa esistesse ancora. L’ex vicepremier riconosceva amaramente i sintomi di un rinascente totalitarismo, e temeva tutte le debolezze dell’Occidente. L’appuntamento con la morte annunciata è avvenuto alla fine di una serata di normale convivialità, forse dopo un bacio, o dopo parole d’amore. Chissà. E’ successo dieci anni fa. C’è chi non dimentica. E sfida il potere, lasciando un fiore sul marciapiede che fu patibolo di Nemtsov. Si può cancellare il passato per decreto. Ma non la memoria.

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