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‘Con la testa sott’acqua’, una condizione esistenziale e un libro da leggere

‘Con la testa sott’acqua’, una condizione esistenziale e un libro da leggere
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di Marco Pozzi

Dev’essere molto particolare, alquanto straniante, cambiare l’elemento naturale in cui si fa sport. Stadio o palazzetto, si sta comunque sulla terra, e anche la strada per la maratona o il ciclismo, o la sabbia per il beach volley, fanno sentire a suo agio una specie terrestre come l’homo sapiens.

“La pelle è il più grande ed esteso organo di percezione dell’uomo, ricopre l’intero corpo, è connessa agli altri organi di senso ed è l’unico in grado di combinare la dimensione spaziale con la dimensione temporale. Dall’altra parte è l’involucro esterno che ci fa percepire «l’altro da noi» […]. I nuotatori sono a lungo a contatto con l’acqua, elemento che continua a fare pressione sulla loro pelle, le percezioni di spazio e tempo si modificano e si ritrovano a fare i conti in termini di dipendenza con un questo elemento e con tutto ciò che simboleggia nel loro inconscio” (pp. 166-167).

La citazione viene da un bel libro appena uscito per Add Editore: Con la testa sott’acqua – il mondo visto da chi nuota, di Cristina Chiuso, che da nuotatrice ha partecipato a quattro Olimpiadi e che della nazionale è stata capitana.

Scopriamo che le prime gare di nuoto si tengono nel 1843 in Inghilterra, e che da allora la disciplina si sviluppa, standardizzando via via le tecniche, le gare, i tempi. Leggendo scopriamo le caratteristiche dei vari stili, e che la rana è il più antico, poiché già se n’ha notizia dall’antico Egitto. Scopriamo cosa sia la “call room”, la stanza dove si riuniscono i nuotatori prima della gare e dove, a colpi di sguardi e gesti, si gioca la prima parte psicologica della competizione.

Il libro cita anche studi scientifici che dimostrano come i nuotatori in particolare, fra gli atleti di alto livello, soffrono di situazioni negative per il loro benessere, fino ad ansie, crisi e depressioni.

L’acqua è un elemento primordiale, tanto da assumere nella filosofia greca la connotazione di “archè”, quale principio e sostanza originaria d’ogni cosa. La Terra dovrebbe chiamarsi Acqua, visto che sul pianeta le terre emerse rappresentano solo il 30% della superfice. Le nostre cellule si formano galleggiando nell’amnio, dove nuotiamo verso la vita.

Vivere la propria origine in solitudine forse è troppo difficile da sopportare: calarsi nella maschera d’un essere marino, anfibio, a metà fra due elementi, fra due identità. La pelle non dà immediato accesso al regno dell’acca-due-o. Non ci si può sentire del tutto a proprio agio, pur sforzandosi di produrre le migliori bracciate; come non saremmo capaci di respirare per fotosintesi clorofilliana alla maniera delle piante, così non abbiamo branchie né pinne per comportarci alla maniera dei pesci. Il disagio forse viene da lì: emerge la consapevolezza di non essere nel posto giusto, di sentirsi un essere umano incompleto e fragile per natura, e in più costretto ad eccellere laddove sono di casa altre specie, e i sapiens sono stranieri. E ci si chiede: perché? perché devo stare qui?

“Galleggiare non è né un talento né un apprendimento, ma è il risultato del principio di Archimede. […] Annegare non è una questione di nuotare o stare a galla, ma di respirare. Si annega quando l’acqua entra nei polmoni. Il controllo della respirazione ha molto più a che fare con il rapporto che s’instaura con l’acqua, con l’armonia che si ha con questo fluido o con situazioni contingenti come la stanchezza o il freddo che non l’essere un nuotatore provetto. Anche un nuotatore esperto può annegare” (p. 15).

Nel libro si dice che la sola disciplina non acquatica che mette tanta importanza alla respirazione è lo yoga. Bisogna “creare una nuova abitudine”. Bisogna acquistare fiducia nell’acqua, “che sarà sempre lì a sostenerti”, come un’”alga”, come una “bustina da tè”; si evolve fino a percepirsi un elemento in movimento dentro di essa, non più esterno, ma parte del suo fluire, che scivola al pari d’un’onda qualunque mentre anche la pelle diventa acqua. Nell’impossibilità di una metamorfosi ovidiana, si nuota sia per la fisica di Archimede sia per forze interiori.

Il libro si chiude con il “nuoto selvaggio”, col ritorno a nuotare in acque aperte quali fiumi e mari, anziché nel contesto artificiale di una piscina. Si abbandona il controllo del termometro e del fondale perfetto, per perdersi in una vastità differente, dove esistere è più importante che vincere o essere sconfitto.

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