“Da lì si poteva ammirare per intero il ponte di Galata e la città che si inerpicava sulle due rive. Lo splendore di quello spettacolo li costrinse a scuotersi, sbattendo le palpebre. Di fronte alle luci della sponda asiatica, relativamente pallide, quella europea con la vecchia Istanbul e Beyoğlu appariva tutta tappezzata di fiochi puntini rossi da cui si levava una nebbia luminosa. La città avvolgeva su tre o quattro lati il mare di un colore misterioso, come un ammasso di lucciole, e appariva due volte più immensa che di giorno”.
Il demone in noi, di Sabahattin Ali (traduzione e introduzione Nicola Verderame; Carbonio Editore), è un capolavoro della letteratura turca contemporanea, in parte autobiografico, pubblicato per la prima volta nel 1940. Il romanzo racconta la storia di Ömer, un giovane dell’Anatolia occidentale che vive a Istanbul e che cerca di sbarcare il lunario grazie a un lavoro d’ufficio procacciatogli da un parente influente. Ömer passa il suo tempo libero con studenti e intellettuali (Sabahattin Ali usa nomi di finzione per narrare dei veri intellettuali della destra nazionalista turca degli anni Trenta), con i quali parla di letteratura, politica e della filosofia del “demone interiore”, una presenza simbolica che interferisce nella vita delle persone e impedisce loro di raggiungere i propri obiettivi e l’autentica felicità.
Ömer incontra anche l’amore: mentre è a bordo di un traghetto che attraversa il Bosforo in compagnia dell’amico Nihat, nota una ragazza dalla quale si sente immediatamente attratto. La giovane si chiama Macide ed è una musicista proveniente da una famiglia modesta che rappresenta l’indipendenza e l’emancipazione femminile che stava emergendo in quegli anni.
Il demone in noi, romanzo che descrive e fa rivivere il fermento culturale e sociale della Repubblica di Mustafa Kemal Atatürk, ha la grande capacità di sviluppare in profondità la psicologia dei personaggi, di mostrare gli aspetti più sordidi legati al denaro, al desiderio di fama e panturchismo, e alla volubilità dietro le scelte umane dei singoli protagonisti, una generazione di giovani intellettuali che vivono senza una vera e propria prospettiva, vittime del nepotismo e della corruzione vigenti nella nuova nazione. Un libro avvincente e ben scritto, che riesce a miscelare mirabilmente il flusso di coscienza con sequenze descrittive che esaltano la Istanbul degli anni Trenta, metropoli inquietante, sordida e di infinita bellezza.
“In quel periodo, il governo israeliano aveva iniziato il censimento della popolazione di Gerusalemme, al fine di stabilire il numero esatto degli abitanti. Chi non era residente veniva privato dei documenti e sfollato fuori città. Gli ebrei che avevano iniziato a percorrere alcune strade della Città Vecchia per andare e venire al Muro di al-Buraq cominciarono a molestare i residenti e arrivarono a richiedere che non fossero percorse dagli arabi. Nella zona di Wadi al-Juz e nelle adiacenze della moschea di al-Aqsa, occuparono numerose abitazioni che erano state lasciate dai proprietari. Nessuno avrebbe saputo niente di ciò che stava succedendo, se qualche notizia non fosse trapelata dagli ospedali e dalle questure”.
La porta chiusa, di Ibtisam Abu Miyala (traduzione di Barbara Benini; Atmosphere Libri), è una storia ambientata in Palestina, al termine della Guerra dei Sei Giorni, che vede protagonista la diciassettenne Iman, sposata con il cugino contro la sua volontà e obbligata dalla madre a intraprendere un pericoloso viaggio in compagnia di sconosciuti da Amman a Gerusalemme. Iman si rende conto dal primo istante di essere stata venduta per preservare l’eredità della famiglia e la loro casa nella Città Santa. Si rende anche conto che il viaggio è, per sua definizione, cambiamento, esperienza in grado di dare un corso diverso alla sua vita e al destino che la attende. Dopo aver sperimentato l’amore e essersi resa conto della difficile situazione in cui vive il popolo palestinese, Iman diventa più forte, interiormente.
La porta chiusa è una storia emozionante e profonda, che tratteggia Gerusalemme, le sue case e le sue strade, in modo verosimile e originale e che mostra realisticamente e senza fronzoli la triste quotidianità della Palestina.