Poiché siamo un Paese senza problemi, con un governo liberale e progressista e siccome c’è la pace nel mondo, potevamo permetterci la polemica di fine anno su Tony Effe e sulla sua esclusione al concerto di Capodanno a Roma. E invece.
E invece si assiste a una passerella di ricchi soggetti privilegiati che esercitano il loro diritto al piagnisteo per la presunta censura ai danni di un loro collega. Per frasi contenute in alcune canzoni che, se fossero pronunciate in una scuola all’indirizzo di qualsiasi compagna di classe, richiederebbero misure disciplinari anche gravi. Se ne deduce che chi, nello star system, in questo momento sta gridando allo scandalo ha frequentato con scarso profitto l’obbligo scolastico.
Premetto che non conosco Tony Effe, se non per cronachette di scarsa qualità utili a fare clickbaiting, e che poco o nulla me ne cale della sua esclusione o della sua presenza a qualsivoglia manifestazione canora. Ma un paio di cosette su questa querelle andrebbero dette. Per riportare la discussione sul piano della realtà e per dare valore alle parole. Se non quelle delle canzonette – che lì vige la libertà più sfrenata – quantomeno a quelle del dibattito pubblico.
Mi riferisco a una in particolare: censura. Partiamo da un presupposto fondamentale: Tony Effe non è mai stato censurato. È censura se non ci arrivi nemmeno a pubblicare un disco o un libro. È censura se, una volta pubblicato, ti impediscono di far circolare la tua opera. È censura quando dai fastidio al potere e ti mettono il bavaglio, non quando ferisci la sensibilità delle vittime. Mutatis mutandis: se non ti invitano alla festa di laurea, perché stai antipatico per come ti comporti, non sei vittima di un’ingiustizia. Se non puoi iscriverti all’università per ciò che sei o rappresenti, allora abbiamo un problema. Tony Effe rientra nel primo caso.
Avete presente il discorso di Scurati, mai andato in tv per non dispiacere a chissà chi, ma con la fiamma ardente nel cuore? Avete presente Ghali o Dargen D’Amico, e il trattamento a loro riservato per aver osato prendere le parti del popolo palestinese? O Umberto Bindi, allontanato dalle scene perché non proprio eterosessuale? Ecco, quella è censura. E sarebbe interessante sapere dove erano i vari cantanti dolenti quando si dovevano difendere ben altre posizioni e altri colleghi. Perché io non ne ho memoria.
Certo, fa scalpore che nomi come Mara Sattei – che, diciamolo, non è esattamente la risposta italiana a Lady Gaga (e sia chiaro, a me piace pure) – o Mahmood siano talmente dalla parte del loro collega escluso da ritirare la loro presenza all’evento romano. Ma se sulla prima possiamo dire che abbiamo superato sventure maggiori, fiorendo sempre a nuova vita, del secondo va ricordato che – per passare a un altro piano – non risultano dichiarazioni o prese di posizione a favore della comunità in cui, secondo voci di corridoio, dovrebbe riconoscersi. Figuriamoci il resto! E che quindi tale posizionamento non stupisce. Anzi.
Insomma, per farla breve, Tony Effe è ampiamente rappresentato e venduto. Basterebbe connettersi sui ben noti canali di diffusione musicale per averne contezza. E se basta un click per apprezzarne gli echi neopetrarcheschi, di certo la censura è una parola che sarebbe il caso di non scomodare.
Sempre per tornare al senso di realtà, farei notare quanto segue. Muore una donna ogni 2-3 giorni per femminicidio. E ci sono violenze di genere sistemiche. Direi che sarebbero altre le cose per cui indignarsi. Viviamo, inoltre, in un tempo in cui la difesa di chi vive ai margini non è la priorità. Se per una volta qualcuno sta a casa perché non si gli si vuol far passare un certo modo di esprimersi, ci sta pure. Infine: ci sono un sacco di cantanti dentro e fuori il mainstream. Una sostituzione si trova. Due pure. Tre anche. E il dato è destinato a crescere. Direi nulla a cui non si può rimediare, insomma. Il silenzio di chi, invece, può continuare a vivere tra ignavia e disimpegno – e non c’è privilegio più grande – sarebbe un’urgenza di cui si sente il più disperato bisogno.