“Ho visto bambini nelle celle, non più grandi di dieci o dodici anni, che venivano picchiati come noi adulti e trattati con brutalità: il loro pianto ci distruggeva, ma non potevamo muoverci, non potevamo alzare un muscolo”. Mahmoud al Fayz, originario di Jabal al Zawyia, nella regione di Idlib, è stato detenuto quattro anni all’interno del famigerato carcere di Sednaya, in Siria. “Ci davano un pezzo di pane con dell’acqua come pasto e le malattie si diffondevano fra i prigionieri” continua al Fayz, parlando con il quotidiano panarabo al Araby el Jadid, che lo intercetta appena liberato dal carcere. “Ho visto miei compagni morire torturati o per le malattie”. Dalla mattina dell’8 dicembre, cioè dalla caduta del regime siriano controllato dalla famiglia Assad, migliaia di siriani hanno circondato la prigione di Sednaya, poco distante dal santuario dedicato alla madonna, in quello che è un pellegrinaggio che una parte della popolazione, in cerca dei propri famigliari scomparsi, sta compiendo in direzione di ogni carcere liberato del paese.
“La ricerca dei detenuti è durata oltre 48 ore, ma ora è finita” ha detto il portavoce della protezione civile siriana – conosciuti anche come i caschi bianchi – Siamo certi di aver perlustrato tutta la struttura e i suoi livelli, non c’è nessun’altra cella segreta nel esplorata del cercare”. Nelle operazioni di ricerca, che hanno visto il coinvolgimento di decine di uomini nell’opera di ricerca della struttura carceriera ribattezzata “il macello umano”, sono stati impiegati anche cani addestrati a rintracciare persone sotto le macerie. “Sono venuto a Sednaya con poca speranza”, racconta al quotidiano panarabo Laith al Daghim, originario di Idlib. “Dal 2016 abbiamo perso le tracce di mio padre che sapevamo rinchiuso nel carcere del Mezzeh, gestito dai servizi segreti dell’aviazione”. Ma, continua, “nel 2018 abbiamo ricevuto informazioni che era stato trasferito qui, anche se non ne abbiamo mai avuto la certezza”. Al Daghim, dopo aver speso 24 ore all’esterno della prigione, aspettando la conclusione delle operazioni di salvataggio dei prigionieri, alcuni rinchiusi in celle nel sottosuolo, è ritornato a casa.
Migliaia sarebbero le persone scomparse, di cui non si hanno più traccia. “Un giorno hanno preso 50 persone dalla nostra cella – racconta Maan al Sayyadi, appena liberato, a al Araby Al Jadeed – e, solo dopo, abbiamo saputo che li avevano uccisi tutti”. La morte, racconta, “ci perseguitava notte e giorno: non immaginavamo che questo incubo potesse finire”. La sfida più grande, conclude l’ormai ex detenuto, “non era la fame o la tortura ma osservare gli altri carcerati arrendersi alla morte: alcuni di loro rifiutavano di mangiare per lasciarsi morire”. In una delle aree del complesso, teatro nel 2006 di una rivolta dei detenuti esausti per le condizioni di vita e poi sedata con il sangue dalle forze di sicurezza, sono collocate le celle “mah’ja”, dove gruppi fino a 200 persone venivano rinchiuse in spazi di un paio di decine di metri quadrati. In un’altra parte del complesso, mostrano molti filmati social realizzati da giornalisti o comuni cittadini, c’erano le celle singole, “munfaride”, in cui i detenuti venivano lasciati in isolamento. Acqua stagnanti, escrementi e oscurità erano onnipresenti.
“Questo luogo non uccide solo il corpo – spiega Sayyadi, incarcerato senza processo come tutti gli altri -, ma anche l’anima”. Non ci sentivamo umani, non avevamo nomi, spiega, “loro ci chiamavano con numeri”. Anche Sayyadi conferma la presenza di bambini fra i detenuti. “C’erano questi bambini che non sapevano cosa accadeva e chiedevano: ‘ perché siamo qui? Perchè ci trattano così’”. E fra le lacrime, l’uomo ormai libero racconta: “Ho visto un bimbo chiedere un bicchiere d’acqua ad un secondino e questi lo ha picchiato fino a farlo svenire”. Guarda il cielo Sayyadi: “Vivevano nell’oscurità più totale: eravamo sepolti vivi”. Fra le centinaia di cadaveri ritrovati c’è anche quello di Mazen al Hamada, attivista siriano, già arrestato in Siria, che, dopo essere stato liberato nel 2013 si rifugiò in Europa. Da quel momento, l’oppositore siriano girò diversi paese testimoniando la sua esperienza di ex detenuto e torturato nelle prigioni di regime. Anche in Italia Mazen portò la sua testimonianza e fu intervistato da Ilfattoquotidiano.it.
Nel 2021, secondo la ricostruzione, persone dell’ambasciata siriana in Germania lo avvicinarono offrendogli la grazia e la possibilità del ritorno, in cambio del silenzio. Ma una volta arrivato all’aeroporto di Damasco Mazen sarebbe stato portato via, sparendo. Il ritrovamento del cadavere mette fine a uno dei tanti casi di sparizione in Siria. Dando ancora di più l’idea che il martirio di questa nazione passa dalle prigioni.