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A prendersi cura dei genitori anziani ci si trova di fronte a una nuova nascita

A prendersi cura dei genitori anziani ci si trova di fronte a una nuova nascita
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di Rosamaria Fumarola

Quando si parla della cura dei genitori anziani, il senso di colpa diventa un portato inevitabile di cui ci si deve fare carico, come se il terribile dolore per il loro decadimento psicofisico non fosse già una prova della mancanza di responsabilità, di fronte a qualsiasi tribunale.

La ragione risiede nel fatto che un padre o una madre rappresentano una parte di ciò che siamo, della componente più profonda di noi, e una cura loro rivolta è anche un atto di attenzione verso sé stessi. In tutto questo, ovviamente, c’è da sempre anche un dettato morale che la società impone, e che è impossibile separare dal resto.

Assistere chi si ama ci obbliga anzitutto a porci delle domande, soprattutto in relazione a chi siamo, perché questo consente di trovare le energie necessarie ad affrontare il viaggio. Barare non ha senso; anzi, raccontarsi la verità ci permette di compiere molti meno errori di quelli che le circostanze da sole ci impongono.

A ciò si aggiungono poi i rapporti e le loro caratteristiche complesse e sempre diverse, perché un genitore lo si ama in quanto tale, ma lo si può anche considerare distante nelle scelte di vita o semplicemente nel carattere, dalla nostra gestione della quotidianità. Se quando si è giovani la manovra dell’evitamento ci salva da un conflitto che si prevede certo, nella situazione di emergenza imposta dalla malattia non esiste margine di scelta che la coscienza consideri accettabile. Si abbraccia così la sola strada che si ha davanti: quella del prendersi cura dell’altro, che è in qualche modo anche un prendersi cura di sé, nella speranza che si sia già imparato il rispetto per la propria persona. In assenza di tale rispetto, non può esserci cura per l’altro.

Ci si trova quindi di fronte a una nuova nascita, obbligata e con un bagaglio più scarno, un bagaglio che non è sbagliato definire “di seconda mano”. Si partorisce per affrontare un evento che la vita impone. Ci si programma all’efficienza, alla lucidità, senza pensare che si dovrà fare i conti con parti di sé lontanissime dal raziocinio. Così si cade, e cadendo si trascina l’oggetto del nostro amore, attribuendosi una colpa assoluta che un padre o una madre non si sognerebbe nemmeno di contemplare, preoccupati come sarebbero solo di riprendere il viaggio. Un figlio sa anche questo e si domanda la ragione di una corsa a dover perdere un bene tanto prezioso. Ma, per quanto sia amorevole e diligente, non riesce a trovare una spiegazione umanamente accettabile.

Sarà anche per questo che, nel mentre prova a rialzarsi, si ferma a guardare la mancanza di senso che ha davanti: questo muto nulla che non conosce rispetto per le nostre vite, misere, piene di errori eppure anche per questo colme di una dignità che non ha prezzo. La pietà è un’elaborazione culturale sconosciuta alla natura, che prevede l’importanza del singolo. Forse, però, la natura non ha interesse alcuno per l’individuo, e per questo disinteresse non può essere citata nei tribunali che abbiamo creato, che sono anch’essi un prodotto culturale.

La natura non è uno strumento pensato dall’uomo per adattarsi al reale; la natura è il reale che si perpetua, dinamico. L’arte può porre natura e cultura sullo stesso piano per un confronto, perché l’arte è finzione. Niente, ad esempio, resta più profondamente sfidante nel nostro immaginario della partita a scacchi con la morte nel film di Ingmar Bergman “Il Settimo Sigillo”. Niente è più evocativo di quella sospensione figlia della paura, in attesa che la morte si prenda tutto.

L’arte riesce a rappresentare, a raccontare la nostra sconfitta, il nostro essere incapaci di salvare chi amiamo da un male che non siamo in grado di comprendere. Ma la morte ci ricorda che ogni corsa ci sfinisce e ci impone di fermarci, e che gli eroi non sono dei.

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