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Christofle de Beaujeu, lampi barocchi (Traduzione di Federico Pietrobelli)

Christofle de Beaujeu, lampi barocchi (Traduzione di Federico Pietrobelli)
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Nato nel 1553, fu cavaliere nella Lega cattolica che combatté i Calvinisti. Esiliato nel 1578, vagò per l’Europa e fece ritorno in Francia nel 1588, dove svolse una rispettabile carriera militare. Morì attorno al 1645. Tra l’asfissiante e sanguinoso clima patrio ed un esilio farfallone e misero nascono i versi ombrosi ma scanzonati, né privi di una certa grazia, di Beaujeu, raggruppati in Les Amours (1589), di cui una scelta dal titolo Entouré de silence, curata da Gisèle Mathieu-Castellani, è stata pubblicata per La Différence nel 1995.

Per la traduzione abbiamo rispettato lo schema rimico dell’originale.

F. P.

***

1

Grandina e tuona Amore nel mio seno
e incide in cuore, con strale assassino,
di mia Donna il ritratto più divino,
e forza e strema, e mi fa fuor di senno.

Ché culla, cibo, preda io gli sono,
piacere e forza, ecco, si fa vicino
a farmi male, tanto è ardito,
ardito sì, ma ingrato di un tal dono.

Come farfalla nasce da rugiada
che viva, mangia la foglia bagnata,
ingrata che si nutre della culla:

così quel bimbo che mi nacque dentro
e mi divora il cuore, sazio in nulla,
in me sta mai punito, né contento!

2

Assenza, Assenza, Assenza, o empio divorzio,
pietà di afflitti, e casa dell’atro,
che tutti guasta, e il cui potere provato
fa nuovi inferni, e sa che armi ha a servizio,

perché, misero innesco, perché, inizio
delle mie foghe, hai precipitato
su tutti i cuori il mio ardente e sventato
e altero e indomito, e in fondo fittizio?

E avessi almeno per auspicio l’astro,
la Dea che suda in quel velo grigiastro
rotto di fresco da legno feroce,

o i forti venti sulle onde ritorte
traessero il nome o il suono della voce
di mia Donna, io, avrei tentata la sorte!

3

Il giorno dei Morti che l’usanza
ordina di pregare sui sepolcri
miravo il feretro di tanti corpi
in fondo al campo in caotica adunanza,

chi Mercante, chi Nobile, chi senza
nulla, giovani e vecchi, fiacchi e forti,
e piansi, piansi un fiume in cui dissolsi
con gli occhi il cuore, l’umana indigenza.

Tutti quei corpi, pensai corrucciato,
come noi hanno amato, arso, ragionato,
e ora in nulla la forma si è compiuta!

Perciò amiamo la vita né tradiamo,
perché noi pure, una volta perduta,
non saremo altro: ombra, sogno, fumo.

4

Città delle città! dove l’ostessa
barbara ignora in dieci anni l’ospite
di casa, in cui alloggia senza termine
giù il Cristiano e il Tartaro in altezza,

non so più raro da far conoscenza,
e se mai feci il mio nome, qui al limite
mi conosce chiunque: io sono, o anime,
del grande Amore lo strambo Profeta!

La loro malamorte, io! va’ a sapere
se adesso non farei il mio dovere
dando a tutti una febbre quartana!

Né amo, ma Amore, che fosse impiccato!
Quel malvagio è fonte della mia pena:
ché tutto il tempo ho perso non amato.

5

Nudo deserto in ghiacci imperituri,
figura d’Inferi e casa di Demoni,
perché resti in fianco a quei monti?
Ricevi Apollo, nei tuoi antri insicuri.

Solingo là, cui nuovi i miei amori
mi guidano al lamento le canzoni,
ricorda del mio liuto i pianti e i suoni
che dolci lodano eterni dolori.

Ti ammanti di quel monte bacianubi
sempre, perché sempre l’ombra continui,
e sdegni il Cielo che dolce ti occhieggia.

Beato deserto, da ogni fiamma assente,
fosse così il mio cuore, distante
da mia Donna, che ferma in me fiammeggia.

6

Se il lampo guida in notti furiose
chi smarrito va errando in confusione,
così quest’occhio che mi offre chiarore
mi perde, cinto di fiamme amorose.

Lui nulla vede nelle ombre paurose,
per troppa luce io non mi ho in visione,
e il mio occhio teme lo specchio uccisore
che arde a morte e fa notti tenebrose.

Io parlo di quel fuoco, che divino
schiara le più buie, re del suo nemico,
l’astro di noi che cede al suo splendore.

Gemelli, o mira dei mari Gelati,
ardete, accendete gli antri imperlati,
e ora non me, oggetto del suo calore.

7

Non vedo altro che tombe,
tutti i miei giorni non sono che tenebre,
solo lamenti, le mie notti, funebri,
a ogni mio altro soccombere.

Gli amanti che incontro
fuggono la mia mano, li ingombra
questo io, lo temono, lo credono un’ombra
che erra nello spavento.

Il mio volto di bianco
e i miei occhi bui, li credono in vita,
la mia anima anche, da Amore seguita,
tiene alto il proprio rango.

Col suo cornetto, il fido
Tritone invoca lo specchio marino,
ma no, non sa se il mio amore divino
sia Morte, o Cupido.

Come Nettuno al largo
navigo della vita mia stupito,
tanto soltanto mia Donna ho servito,
guidato dal suo sguardo.

E ho passato le alture
dove Taonice per paura placata
non sa di che abbia l’anima ammalata,
e ne teme l’ardore.

A forza di tormenti
e di baci un altro uomo sono fatto,
così che il Cielo mi ha ribattezzato
Fenice degli amanti.

Note:

1
v. 12: il bimbo è Cupido.

2
v. 10: la Dea è Minerva, la fonte è Plutarco, Vita di Lucullo: “…si dice a Ilio la dea Minerva fosse apparsa a più d’uno nel sonno, madida di sudore, con un suo velo strappato, come fosse appena tornata dal portare soccorso ai Ciziceni.”

6
v. 12: i Gemelli, i Dioscuri, sono guide nel cielo ai naviganti.

7
v. 22: Taonice è probabile anagramma di Ctonia.

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