Giovanna è stata un’artista tra le più importanti degli ultimi 60 anni.

Un intellettuale tecnicamente preparatissima che per scrivere va ad ascoltare la musica e le parole delle donne e degli uomini che hanno parlato e cantato e suonato per secoli, ma che le caste dominanti nobili e borghesi hanno sempre schifato.

Non ho fatto in tempo a comprare i suoi dischi, ho cominciato con le audiocassette e i cd. L’ho incontrata per la prima volta a un’iniziativa politica. Lungo una strada dalle parti di Centocelle, periferia est di Roma. Una lunga giornata cominciata in un cinema con le scuole. C’era pure Marisa Musu, partigiana comunista. Per inquadrare approssimativamente l’anno vado a cercare quando è morta Marisa. Era il 2002. Significa che sono passati più di vent’anni, insomma. Quando mi chiedono quali sono i miei maestri, bo… non lo so. Faccio qualche nome, ma ho dubbi su tutti. Soprattutto su di me come allievo. Invece su Giovanna ho sempre risposto con sicurezza.

La vedi da sola con la sua chitarra tra le case popolari e poi sta sul palco nella sala Sinopoli dell’Auditorium. Ho la registrazione, la riascolto. Era il 24 marzo, due anni più tardi. 2004. Sessanta anni precisi dall’eccidio alla Fosse Ardeatine. Ho montato la scenografia striminzita del mio spettacolo. Una sedia e quattro lampadine. Lei è seduta vicino a me. Dietro c’è il coro delle sue fedelissime e fedelissimi. Sono una cinquantina. In platea c’è il sindaco, qualche assessore e forse un paio di ministri. Su l’Unità c’è scritto ingresso gratuito fino a esaurimento di posti e i 1133 posti sono esauriti. Io ho appena pubblicato un libro. Giovanna mi chiede “Alla fine dello spettacolo vendiamo le nostre cose?” Le dico che ho chiesto, però mi hanno risposto che non possiamo vendere libri e dischi perché già li vendono in libreria all’entrata. “Non dovevi chiederlo!” mi fa “Lo sai che ti dicono che non si può”. Alla fine dello spettacolo ci prendiamo gli applausi e lei si allontana, tira fuori uno scatolone e prende il microfono. “Io c’ho un editore che mi pubblica i dischi, ma gli piacciono così tanto che se li tiene tutti per lui”. Gli spettatori ridono e lei si mette a vendere i cd dal palco della Sinopoli davanti alle autorità.

Un giorno mi chiama Charles Tordjman, un regista francese, dice che vuole mettere in scena Fabbrica, un mio testo. Viene in Italia, ci vediamo in un bar a via del Monte della Farina. In scena ci saranno due attori. Serge Maggiani di origine italiana e Agnès Sourdillon che ha già lavorato con lui. Mi porta a vedere La Langue d’Anna di Bernard Noël. Agnès sembra un po’ un clown. Mi fa anche una scenetta, lo sketch di un circo microscopico delle pulci. Finalmente Charles mi parla della musica che vorrebbe usare. “Conosci Giovanna Marini?” chiede. Io dico “Certo, è mia madre”. Poi mi spiego meglio. Cioè è l’artista che sta sempre lì, tra i riferimenti obbligatori. Un esempio di rigore e di creatività, di follia che non si impiccia nelle mode. Il giorno del debutto al Théâtre de la Manufacture di Nancy c’è un italiano che cucina per artisti e pubblico. Spesso all’estero ci vedono così. Per loro siamo ossessionati dal cibo. Se parli dell’Italia ci deve stare almeno una mozzarella o un rigatone. Anche al Théâtre Vidy-Lausanne mi portano subito a mangiare. Anche in Svizzera ci hanno conosciuti come immigrati e si pensano che stiamo sempre per morire di fame. Il direttore è René Gonzalez. Giovanna Marini lo chiama Il mio direttore. Dodici anni fa quando è morto su Le Monde scrivevano che ha prodotto mezzo teatro europeo “Robert Wilson, Benno Besson, Joël Jouanneau, Heiner Goebbels, Rezo Gabriadze…”, ma soprattutto “Giovanna Marini, à qui le liait une indéfectible fidélité”.

Rivedo lo spettacolo a Parigi al Théâtre des Abbesses. In scena con Giovanna ci sono altre tre voci, quella di Sandra Mangini, Germana Mastropasqua e Xavier Rebut. La scena è bella, gli attori sono bravi, ma la musica è tutta un’altra cosa. È indimenticabile. Giovanna Marini è sublime. Gli spettatori applaudono come puoi immaginare quelli che hanno visto Maria Callas o qualche altro grandissimo del passato che leggiamo sui libri. Ma Giovanna non è appena scesa dallo yacht di Onassis. La settimana prima stava a Centocelle e cantava per i lavoratori precari in sciopero. La settimana prossima è invitata da De Gregori o Capossela, poi la vedi alla manifestazione dell’Anpi al Quadraro che canta Bella Ciao.

Quando è morto Dario Fo è stata lei la prima persona che ho chiamato al telefono. Si è messa a raccontare di quando lavoravano insieme. Mi ricordo che stavo seduto al bar in una strada dalle parti della Prenestina. Il caffè mi si freddava, lo bevevo e ne ordinavo un altro col gesto della mano. Non so quanti ne ho bevuti. Lei raccontava. Dopo un bel po’ mi dice “Ascà, ma perché m’hai chiamato?” E io non lo sapevo. Mi sa che le ho detto proprio così. “Bo, non lo so” perché quando muore una persona io mi sento sempre più o meno così. Non lo so. Un po’ mi sento che vorrei parlare, un po’ no. Un po’ mi serve che ci sta qualcun altro che parla. Perché le parole sono un impiccio. Sembra che dicono tutto e poi ti lasciano solo. Le parole riescono a dire le cose solo se ci sono le persone. Sono le persone che le sanno dire.

L’ultima volta che siamo stati insieme sul palco gli ho chiesto tre canzoni. Io stavo zitto vicino a lei. Non c’era nemmeno il pubblico. Le abbiamo registrate in un grande teatro vuoto. Io ho pensato due cose. Una è “Le sta cantando per me”. Nella Cantata a Riace fa parlare il sindaco Mimmo Lucano con gli immigrati. Gli mette in bocca queste parole “Noi diamo una casa a voi, e voi ridate un paese a noi”. Per avere un paese non bastano le case, ci servono quelli che le abitano. Così come per avere un popolo non basta la gente, ci vuole anche una terra da abitare.

In due righe ci sta tanto mondo di Giovanna. È quello che ha fatto per tanti anni. È andata a prendere i canti che stavamo dimenticando, i suoni che riuscivano a dire le parole meglio di altri. Ha rimesso insieme tutto, i suoni e le bocche, le parole e le cose.

Giovanna è andata a ascoltare quel mondo che sembrava silenzioso. Sembrava, ma era solo inascoltato.

Ciao.

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