Fu il responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva di Taranto, ma per gli inquirenti era più concretamente la “longa manus” nella gestione dell’acciaieria, l’uomo che tesseva i rapporti dentro e fuori lo stabilimento facendo da scudo alla produzione e ai profitti milionari, a discapito dell’ambiente. La scorsa notte Girolamo Archinà, coinvolto nel processo Ambiente Svenduto per il presunto disastro ambientale provocato dall’Ilva dei Riva, è morto a 78 anni. In primo grado, nel maggio 2021, era stato condannato a 21 anni e 6 mesi di reclusione dalla Corte d’Assise di Taranto. Si è spento nella sua casa nel capoluogo jonico, dopo una lunga malattia, pochi giorni dopo l’inizio dell’appello del maxi-processo.

Secondo quanto ricostruito durante il primo grado, Archinà era il deus ex machina della gestione dello stabilimento e arrivò, secondo gli inquirenti, a corrompere il consulente della procura Lorenzo Liberti, chiamata a scrivere una perizia sulle emissioni della fabbrica. Nel 2010 Archinà venne filmato in un autogrill sulla Bari-Taranto mentre allungava una mazzetta di 10mila euro a Liberti affinché la consulenza fosse il meno dura possibile nei confronti dell’Ilva. Nelle carte dell’inchiesta finì anche un’intercettazione con l’allora presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, poi condannato a 3 anni e 6 mesi.

Nelle motivazioni della condanna per 26 imputati, compreso Archinà, i giudici tarantini scrissero che “Ilva ‘pilotava’ i controlli, che Ilva forniva dati errati o falsi, che Ilva faceva in modo di condizionare gli organi di controllo – già per loro conto privi di mezzi e di risorse -, che Ilva procedeva alla corruzione di consulenti tecnici del pm, che Ilva demansionava, licenziava, minacciava i lavoratori disposti a ‘parlare’ svelando le effettive condizioni di lavoro e le modalità gestionali degli impianti”. La gestione “disastrosa”, si legge nella sentenza, ha “arrecato un gravissimo pericolo per la incolumità-salute pubblica”.

I “danni alla vita e alla integrità fisica”, scrisse ancora la Corte d’Assise presieduta dal giudice Stefania D’Errico, “in molti casi si sono concretizzati: dagli omicidi colposi, alla mortalità interna ed esterna per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno. Modalità gestionali che sono andate molto oltre quelle meramente industriali, coinvolgendo a vari livelli tutte le autorità, locali e non, investite di poteri autorizzatori e/o di controllo nei confronti dello stabilimento stesso”.

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