La Libia è da tempo divisa fra due entità in competizione per il governo del paese e il controllo territoriale. Il governo di unità nazionale (Gnu), riconosciuto a livello internazionale, amministra la capitale Tripoli e buona parte della Libia occidentale; le Forze armate arabe libiche (Laaf) operano nella maggior parte della Libia orientale e meridionale e sono alleate col governo di stabilità nazionale (Gns), che ne è la spalla politica. Ciascuna entità è sostenuta da gruppi armati che agiscono con vari livelli d’indipendenza e spesso hanno strutture di comando autonome.

Le istituzioni statali sono a loro volta separate, con ministri diversi nella Libia occidentale e in quella orientale.

In questa situazione frammentata e priva di un governo centrale, sei mesi fa sulla città di Derna, nell’est della Libia, si abbatté il ciclone Daniel: almeno 4352 morti, migliaia di scomparsi e quasi 45.000 sfollati. Amnesty International ha accusato tanto lo Gnu quanto le Laaf, che controllano l’area colpita dal disastro, di non aver diffuso avvisi adeguati e di non aver preso alcun provvedimento per mitigare gli effetti dell’arrivo della tempesta, che causò il crollo di due dighe a monte della città.

Secondo gli esperti, l’elevato numero di vittime fu causato da istruzioni contraddittorie, da allarmi inadeguati e dall’imposizione del coprifuoco su alcune delle zone che sarebbero state poi colpite dalla tempesta Daniel. Alcuni abitanti ricevettero l’avviso di evacuare ma aree come Wadi Derna furono trascurate. Dieci minuti dopo il crollo delle dighe, il ministro delle Risorse idriche sollecitò la popolazione a valle a evacuare, ma fu troppo tardi. L’Organizzazione meteorologica mondiale ha dichiarato che con allarmi ed evacuazioni all’altezza della situazione il devastante tributo di vite umane avrebbe potuto essere evitato.

Sei mesi dopo la catastrofe, migliaia di persone risultano disperse e i sopravvissuti vivono nel dolore di non sapere dove siano stati sepolti i loro cari. Le autorità locali e i volontari hanno seppellito in fretta e furia migliaia di corpi in fosse comuni senza svolgere adeguate identificazioni. Le autorità non hanno neanche adottato provvedimenti per facilitare l’emissione di certificati di morte, necessari per ricevere le pensioni di vedovanza e altri aiuti statali: le donne che hanno perso i loro mariti sono le più danneggiate.

Amnesty International ha poi verificato che tanto lo Gnu quanto le Laaf non hanno garantito un accesso tempestivo ed equo ai soccorsi e ai risarcimenti. Nonostante 13.000 persone abbiano ricevuto somme di denaro, alcune famiglie sfollate nella Libia occidentale così come migranti e rifugiati sono stati esclusi. I ritardi e la paura di rappresaglie da parte delle Laaf hanno spinto altre persone, soprattutto quelle sospettate di opporsi alle autorità locali, a non chiedere aiuti.

I migranti e i rifugiati colpiti dall’inondazione non hanno ricevuto la minima assistenza per rendere agevole il ritorno negli Stati d’origine né, in patria, le famiglie dei morti e dei dispersi hanno ricevuto informazioni sui loro cari. Alcune misure adottate dal Gns, come gli aiuti ai bambini rimasti orfani e l’abolizione delle marche da bollo per rifare i documenti d’identità, sono riservate ai libici.

All’indomani della catastrofe, le Laaf sono tornate alle ben note tattiche brutali per stroncare il dissenso e limitare lo spazio per la società civile e l’informazione indipendente. Insieme ai gruppi armati loro alleati, hanno arrestato almeno nove persone che avevano criticato pubblicamente le autorità per la gestione della crisi o avevano preso parte, il 18 settembre, a una manifestazione di protesta. Il 16 settembre l’Agenzia per la sicurezza interna, affiliata alle Laaf, ha arrestato al-Numan al-Jazwi, un attivista che stava filmando la distribuzione degli aiuti. È ancora in carcere, senza accusa né processo e senza poter incontrare avvocati e familiari.

E la giustizia? L’ufficio del Procuratore nazionale, che ha sede a Tripoli, ha confermato ad Amnesty International l’avvio di indagini su 16 attuali o ex funzionari, tra i quali il presidente e due membri del Consiglio municipale di Derna così come i responsabili della gestione delle acque, delle dighe e della ricostruzione della città. Le accuse nei loro confronti sono di negligenza e rifiuto di compiere il proprio dovere. Quattordici dei 16 indagati sono in detenzione preventiva.

Tuttavia, le indagini non stanno riguardando gli alti livelli di comando militare e politico e i potenti gruppi armati. Vi è il timore che riusciranno a farla franca, beneficiando del generale clima d’impunità per i crimini di diritto internazionale e per le altre violazioni dei diritti umani che si verificano in Libia. Anziché essere chiamati a rispondere di tali crimini, nel corso degli anni i membri delle milizie e dei gruppi armati sono stati via via integrati nelle istituzioni statali e ricompensati con encomi, stipendi e ruoli di potere.

In mancanza di qualsiasi significativa prospettiva di accertamento delle responsabilità a livello nazionale, Amnesty International ha sollecitato la comunità internazionale a prendere posizione in favore dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime e appoggiare la costituzione di un meccanismo internazionale dotato di una componente investigativa e di monitoraggio, che possa indagare su possibili violazioni del diritto internazionale umanitario da chiunque commesse e accertare quanto accaduto durante la tempesta Daniel e le circostanze della devastazione e della perdita di vite umane.

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