Il lavoro povero in Italia è endemico e in crescita, ma il governo si volta dall’altra parte. Alle azioni concrete in favore di chi fatica ad arrivare a fine mese pur avendo uno stipendio preferisce la “retorica dell’occupabilità”, pretesto per togliere il reddito di cittadinanza a persone che molto difficilmente saranno in grado di trovare un posto. Ma il “dovere sociale di lavorare” che viene evocato per loro non si applica, evidentemente, a chi vive di rendita dopo aver ereditato grandi ricchezze. Sono i ragionamenti di Michele Raitano, ordinario di Politica economica alla Sapienza e membro dell’European Social Policy Network. Che avverte come l’aumento degli occupati vantato in coro da molti esponenti dell’esecutivo vada preso con le pinze: “Nulla esclude che possa andare di pari passo con un incremento della quota di posti a bassa retribuzione”.

Il Gruppo di lavoro sugli interventi di contrasto alla povertà lavorativa istituito nel 2021 dal ministero del Lavoro, di cui lei ha fatto parte, ha stimato che fosse povero il 24,5% dei lavoratori dipendenti e addirittura il 60,3% di quelli part-time. L’incidenza da allora è aumentata?
Al momento non ci sono dati direttamente paragonabili ma di sicuro la situazione non è migliorata. Bisogna considerare che tutto il forte aumento del lavoro povero registrato tra 1990 e 2018 è stato determinato dalla crescita del part time, perché la quota di dipendenti full time che guadagna meno del 60% del reddito mediano è rimasta stabile. Quindi il problema delle basse retribuzioni è legato alla proliferazione dei contratti atipici e a tempo parziale, che oggi coinvolgono il 30% degli occupati (50% tra le donne). Non si può escludere che c’entri anche un aumento del grigio, cioè il pagamento “in chiaro” di un numero di ore inferiore a quello effettivo. Il che sottrae all’individuo contributi e tutele.

Il governo Meloni ha fatto qualcosa per contrastare questa tendenza?
Nulla mi pare. E nemmeno sul fronte del controllo dei comportamenti opportunistici dei datori di lavoro. Quanto agli sgravi per le assunzioni, è dimostrato che possono favorire un aumento dell’occupazione ma non dei salari: a trarne vantaggio è la parte contrattuale più forte, che in Italia è quella delle imprese. I sindacati, invece, spesso si sono accontentati di concessioni contrattuali sotto forma di welfare occupazionale: fringe benefit di vario tipo che sono sgravati fiscalmente e quindi pesano sul bilancio pubblico. Ma lasciano a bocca asciutta chi ha un ccnl meno generoso.

In compenso rivendica i livelli record toccati dall’occupazione.
Sono sempre preoccupato quando si festeggia un aumento occupazionale, perché nulla esclude che possa andare di pari passo con un incremento della quota di posti a bassa retribuzione. Per ora non abbiamo dati sufficienti per dirlo. Ma possiamo dire che negli ultimi anni il livello medio delle qualifiche dei nuovi entranti sul mercato del lavoro è salito e nonostante questo i salari di ingresso si sono abbassati.

Come si dovrebbe intervenire per affrontare il problema della povertà lavorativa?
Se guardiamo alla dimensione familiare occorre aumentare il numero di percettori di reddito all’interno del nucleo, promuovendo l’occupazione femminile. In più occorrono strumenti per integrare i redditi dei lavoratori poveri: il cosiddetto in-work benefit. Ma vigilando per evitare che si trasformi in un sussidio a imprese che non rispettano i minimi salariali.

E il salario minimo legale? La sua sperimentazione era una delle ricette indicate nella relazione finale del Gruppo di lavoro.
Sarebbe utile, insieme ad altre misure. La proposta delle opposizioni dà un segnale positivo: fissa una soglia di dignità che dà forza in fase di contrattazione. Quanto alla cifra dei 9 euro lordi all’ora, è vero che è superiore al 60% della retribuzione mediana ma non mi pare eccessiva dopo anni di inflazione elevata.

Quella proposta però è stata cassata. Al suo posto è stata approvata una legge delega che passa la palla al governo. Che cosa si aspetta?
Molto poco. Qualche intervento per definire i confini contrattuali, a partire dall’individuazione dei contratti maggiormente rappresentativi. O di quelli più applicati, che però non necessariamente sono quelli sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi.

Che conseguenze ha l’incidenza dei bassi salari sull’economia e sulle disuguaglianze?
Un lavoratore povero non ha certezze, non riesce ad accumulare risparmi, ha bassi consumi. Questo si traduce in bassi stimoli per le imprese a innovare. E genera ricadute negative, per esempio, sulla fertilità, perché induce le donne a rimandare la gravidanza e quindi avere un minor numero di figli o addirittura non riuscire più ad averne. Al tempo stesso accentua le disuguaglianze di reddito e di tenore di vita.

Il governo ha anche abolito il reddito di cittadinanza, sostituendolo con un assegno di inclusione per i “fragili” e uno strumento temporaneo e molto limitato per i presunti occupabili. Lei ha scritto che la filosofia di fondo sembra essere quella di far rispettare un “dovere sociale di lavorare” che però non viene imposto a chi eredita grandi ricchezze.
In Italia le tasse di successione sono praticamente inesistenti perché si ritiene che l’eredità sia un “diritto”. Mentre la povertà è vista come una colpa. In questo quadro, la riforma è stata incentrata sulla retorica dell’occupabilità, ma paradossalmente senza tener conto dell’occupabilità reale. Senza alcuna logica, il governo ha stabilito che un 58enne o 59enne ha maggiori probabilità di trovare lavoro rispetto a un giovane con alto livello di istruzione che vive con un 63enne. I redditi minimi in generale devono essere un sostegno per il contrasto alla povertà, separato dalle politiche attive a cui semmai possono accompagnarsi.

Che giustificazione hanno le “deroghe” concesse ai ricchi?
C’è l’idea che la ricchezza sia legata al merito e che la tassazione ridurrebbe l’incentivo ad accumulare capitale.

Serve un’imposta sui grandi patrimoni, con cui finanziare anche strumenti di sostegno al reddito dei lavoratori poveri?
Una tassazione patrimoniale sarebbe molto giusta per motivi di equità. La capacità contributiva è difficile da misurare solo sul reddito e una parte dei redditi è facile da nascondere. In più l’Irpef è ormai piena di buchi e regimi di vantaggio. Intervenire sui patrimoni consentirebbe di ripartire più equamente i carichi. È vero che esistono le imposte sugli immobili, ma sono mal disegnate: la prima casa è sempre esentata, le rendite catastali sono inaffidabili. In Italia la sola parola suscita terrore, ma con le giuste franchigie la grandissima maggioranza dei contribuenti avrebbe da guadagnarci.

Partecipa al sondaggio (qui sotto) del Fatto con Oxfam su disuguaglianze e necessità di un’imposta sulle grandi ricchezze. Quiil link al sito La Grande Ricchezza da cui è possibile aderire alla raccolta firme per chiedere alla Ue l’introduzione di una tassa a livello europeo.

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