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Quando la storia ci chiederà conto del massacro a Gaza, noi cosa risponderemo?

Quando la storia ci chiederà conto del massacro a Gaza, noi cosa risponderemo?
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Io ci vedo un formicaio. Migliaia di minuscole creature grigie con la testa più grossa e più scura, che si ammassano attorno a buchi neri da cui staccare una briciola e correre via. Fameliche, brulicanti, insignificanti come palestinesi.

Ma voi state sereni e fate conto che siano solamente formiche. Chi se ne frega se muore qualche insetto, anche più di 110. Dall’alto di un drone sembrerebbe di osservarli col microscopio.

A Nord di Gaza, risalendo dal valico di Kerem Shalom che in ebraico vuol dire Vigneti della Pace, migliaia di esseri palestinesi si sono accalcati attorno ai convogli di aiuti umanitari. Non ne vedevano da giorni: troppo pericoloso, perfino per l’Onu, portare lì da mangiare. No, non è troppo pericoloso combattere: è troppo pericoloso portare da mangiare.

Durante la distribuzione, nella disperazione con cui nessun microscopio o televisore riuscirebbe a farci aggrovigliare, 110 e più sono morti, altri 760 sono rimasti feriti. Minuzie rispetto ai 30mila uccisi finora in meno di 150 giorni. Sapete: una minuzia qui, una minuzia lì…

Per le fonti arabe durante la distribuzione l’esercito israeliano ha vergognosamente, vilmente, barbaramente, cinicamente aperto il fuoco. Come quei ragazzini crudeli che si divertono ad attirare le formiche con il pane per poi schiacciarle, torturarle dando fuoco al formicaio. Ma agli arabi, si sa, gli avverbi piacciono. Le fonti arabe sono di parte, ingigantiscono tutto.

L’Onu, che vorrebbe farsi gli affari suoi però, essendo lì, qualcosa deve pur dire, su una bozza di dichiarazione ha espresso “profonda preoccupazione per le notizie secondo cui oltre 100 persone hanno perso la vita dopo che le forze israeliane hanno aperto il fuoco mentre la folla aspettava aiuti alimentari a sud-ovest della città di Gaza”.

Non è vero niente, replica Israele: al massimo colpi di avvertimento per disperdere la folla. Se sono morti, sono morti nel parapiglia.

In guerra il lessico è importante. Perché causare un parapiglia tale non è uccidere, perché il diritto di disperdere una folla in cerca di cibo non è prevaricazione, perché costringere un padre a scegliere tra la fame e un proiettile non è criminale. Perché guerra non è genocidio. Il lessico è proprio importante e la coscienza deve sentirsi più pulita se lo sparo era di avvertimento e non per ammazzare. Che poi siano morti, il problema è loro.

In guerra il lessico è importante perché è ipocrita, e lo è sempre stato. Dire “soluzione finale” è diverso da “campi di sterminio”, “operazione speciale russa” suona meglio di “invasione dell’Ucraina”.

In guerra il lessico è ipocrita perché noi siamo ipocriti. Abbiamo invaso Paesi, esportato democrazia, venduto armi, fatto morire decine di nostri soldati in missione di pace un po’ dappertutto e oggi… oggi niente. Oggi a Domenica In leggiamo le pubbliche scuse a Israele della tv di Stato perché qualcuno su palco di Sanremo ha biascicato qualche parola fuori posto. Biden, presidente di quel Paese che quando dichiara guerra smuove gli alleati e il mondo intero, mangiando un gelato ha detto che gli hanno detto che il cessate il fuoco è vicino.

Quando i tedeschi chiesero ai loro padri dello sterminio, loro dissero non sapevamo, loro dissero non avevamo idea. Quando la storia ci chiederà di questo massacro, noi cosa risponderemo?

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