Questa volta non ha messo in testa il caschetto, anche se assicura che lei e gli operai sono tutti sulla stessa barca. Ray Ban a goccia a velare lo sguardo e smartwatch nero al polso, Lucia Morselli si è presentata tra i lavoratori delle imprese dell’indotto Ilva per un confronto nei giorni più neri dell’acciaieria di Taranto. Mentre il siderurgico rantola e le casse di Acciaierie d’Italia sono ormai esangui, l’amministratrice delegata piazza il suo ultimo colpo di teatro. Ha fatto meno clamore del passato perché, come accade con i funamboli, le acrobazie lasciano a bocca aperta alla prima sera, strappano applausi scroscianti quando riescono una seconda volta ma poi hanno bisogno di un nuovo pubblico per rapire ancora chi le guarda. Nonostante la manager di ferro del mondo dell’acciaio abbia colpito nel segno anche questa volta: calma serafica e favella tagliente, è riuscita a sostenere davanti ai dipendenti disperati che se l’Ilva è ai minimi storici di produzione la colpa è anche loro.

La guerra legale ad alta intensità
“Se non venite a lavorare…”
, ha risposto allargando le braccia mentre tutt’attorno era un cahiers de doléances, detto in francese come qualcuno ha suggerito di parlarne affinché capisca, lei che è stata messa lì da ArcelorMittal, il gruppo franco-indiano alla guida dell’Ilva in coabitazione con la società pubblica Invitalia, controllata dal ministero dell’Economia. Dipendesse da lei, ha sillabato a un certo punto, tutto sarebbe già risolto ma ci sono questioni “alte” che passano sopra la sua stessa testa. Questioni di governo, il nemico del momento che non ha mai nominato ma al quale sta portando avanti una guerra legale ormai ad alta intensità incassando due sconfitte in pochi giorni davanti al Tribunale di Milano. Tutto pur di evitare l’amministrazione straordinaria che il ministro Adolfo Urso potrebbe avviare a giorni su richiesta di Invitalia. Tutto pur di non perdere il comando dell’Ilva, la “sfida industriale più grande e più complessa” dell’industria italiana, come la definì quando venne scelta dalla famiglia Mittal al comando del gruppo.

Dalla matematica alla siderurgia
E allora eccola tra i lavoratori più in difficoltà in questo momento, i dipendenti delle ditte dell’indotto, senza stipendio da due mesi a causa di fatture non pagate da Acciaierie d’Italia per oltre 100 milioni di euro. Il governo a Roma, lontano, e lei in mezzo a loro senza alcun disagio, il pelo sullo stomaco nascosto sotto il gilet blu e la camicia celeste. È stato l’ultimo numero della manager modenese che per capriole, numeri a effetto e contorsionismi potrebbe essere la punta di diamante in uno spettacolo di circensi. Laurea in matematica (“una grande passione”, l’ha definita in un podcast) all’Università di Pisa, esordi in Olivetti, ossa irrobustite in Accenture e Finmeccanica, avventure varie da BioEra fino a Telecom Italia e Essilor-Luxottica, Morselli ha gettato le fondamenta della sua reputazione in Stream e Telepiù prima di iniziare la propria carriera nel mondo della siderurgia. Ci entrò alla Berco Group e bissò alla Acciai Speciali Terni, dove la lotta degli operai contro le sue decisioni sfociò in uno sciopero di 36 giorni e lei si costruì l’aura dell’invincibile. Nella città più rossa della (fu) rossa Umbria, a distanza di dieci anni, si fa ancora fatica a distinguere cronaca e leggende sulle sue gesta.

La battaglia di Terni, tra assedi e blitz
Era il 31 luglio del 2014 quando Morselli riuscì a lasciare il suo ufficio nell’acciaieria, assediato dai lavoratori che voleva licenziare, solo alle 5.20 del mattino grazie a un diversivo e un cordone di sicurezza creato dalla polizia. Quella notte dovette intervenire direttamente il prefetto Gianfelice Bellesini e, raccontò Il Messaggero, l’ad lo accolse nel suo ufficio con i piedi sulla scrivania. “Metta giù i piedi, io sono lo Stato”, fu costretto a dirle Bellesini. Si trattò della prima provocazione di una lunga serie. Qualche mese dopo si presentò di notte, da sola, al presidio dei lavoratori. Delle sue intenzioni non avvisò nemmeno la polizia. Quando la Digos si precipitò davanti ai cancelli di viale Brin per garantire la sua incolumità, lei stava amabilmente – si fa per dire – discutendo con gli operai. Raccontò loro tutto e il contrario di tutto prima che il questore le intimasse di rientrare in ufficio, allontanandola personalmente dal picchetto. La lotta iniziò con la volontà di licenziare 550 dipendenti e si chiuse con 290 esodi incentivati dopo estenuanti trattative durante le quali c’è chi giura che Morselli parlasse faccia a faccia con la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi e, contemporaneamente, piegasse sulla scrivania gli abiti di ricambio che si era portata dietro sapendo che si sarebbe tirato tardi.

La strambata su Mittal e Taranto
“Ci si augura che quella vertenza estenuante, che giunse a un punto di equilibrio molto faticoso, abbia significato qualcosa anche per lei”, fu l’auspicio della Fiom-Cgil quando Mittal la scelse per sostituire Matthieu Jehl alla guida di Taranto nell’ottobre di cinque anni fa. Sogni cullati per poco tempo e seppelliti dalla storia, come i “dubbi” che proprio la manager aveva espresso nel giugno 2018 sui franco-indiani mentre era la numero uno della cordata Acciaitalia, la grande sconfitta nella gara che aggiudicò l’Ilva ai privati. Dal suo arrivo in Puglia si fa fatica a ricordare tutte le promesse disattese dalla società, gli scontri con i sindacati e le battaglie con il governo. Durante il primo corpo a corpo con lo Stato, anno domini 2019, accusò il governo di aver “preso in giro i più grandi produttori al mondo di acciaio”, i Mittal, definiti i “salvatori della Patria” e usò l’aggettivo “criminali” per gli impianti jonici. Quando la “Guerra dei Roses” si risolse evitando il divorzio, anzi rinsaldando il matrimonio con l’ingresso di Invitalia nel capitale, scelse il salotto più in vista, quello di Bruno Vespa, per la strambata: gli altoforni di Taranto divennero un “orgoglio”, l’ex Ilva il “più bell’impianto” dell’Europa intera: “Tutti ce lo invidiano. E credo che sia un privilegio essere a lavorare lì”.

“Non disturbate, sto salvando il mondo”
I più maligni insinuano da sempre che Mittal voglia chiudere gli impianti per eliminare un concorrente in Europa. Al momento è certo che l’idillio è bruciato più in fretta di una manciata di carbon coke. Obiettivi di produzione mancati e cassa integrazione massiccia hanno rinfocolato gli attriti. Il resto lo ha fatto il suo atteggiamento di ferro, a tratti irriverente. Una volta, durante un faccia a faccia con i metalmeccanici, passò l’intera riunione a leggere un giornale. Accanto aveva la sua borsa con tanto di scritta: “Non disturbare, sto salvando il mondo”. Giura di voler salvare anche Acciaierie d’Italia dallo sprofondo rosso dei conti: gli ultimi spiccioli rischiano di non bastare neanche per assicurare la continuità aziendale per il mese di febbraio, secondo la relazione dall’esperto Cesare Giuseppe Meroni al tribunale di Milano nella richiesta di composizione negoziata della crisi presentata da Morselli per evitare l’amministrazione straordinaria. L’Ilva è in un circolo vizioso: pochi soldi in cassa, poco prodotto sfornato, ancor meno soldi a disposizione per acquistare materie prime. Lei non molla anche se l’avvitamento va avanti da anni.

L’azienda? “Si salva insieme”
Nel 2022 e nel 2023 Acciaierie d’Italia ha mancato di milioni di tonnellate gli obiettivi di produzione dell’acciaio, accumulando nel frattempo debiti per 3 miliardi di euro, di cui oltre mezzo miliardo scaduto. Morselli sembra non addossarsi chissà quali colpe, alla luce delle esternazioni fatte ai cancelli davanti agli operai dell’indotto. La necessità di scindere il giudizio tra azienda e dirigenti l’aveva spiegata ai dipendenti dello stabilimento di Genova nel gennaio 2020 mentre la contestavano con lo striscione “Pacta servanda sunt”, i patti devono essere osservati: “Vorrei che fossimo capaci di non identificare mai le aziende con le persone che le rappresentano, che possono piacerci o meno, con i punti di vista, con le situazioni di crisi. Al di là delle posizioni e delle visioni diverse siamo tutti dalla parte dell’azienda perché siamo tutti parte della fabbrica, siamo tutti dalla stessa parte”. Altro proscenio ma stesso numero l’altro giorno con quel “ci si salva insieme” ripetuto più volte ai lavoratori dell’indotto.

Le decisioni immediate, da Minoli alla cig
Non proprio tutti, a dire il vero. Riccardo Cristello, l’impiegato tecnico licenziato nel 2021 per un post su Facebook ritenuto altamente lesivo dell’immagine aziendale, si salvò solo grazie al sindacato Usb e ai suoi avvocati. Morselli non si presentò neanche all’incontro con i legali: era allo stadio a seguire una partita del Taranto Calcio. Decise invece di affrontare i lavoratori nel maggio 2022. Pioveva a dirotto, ma lei indossò giubbotto e casco e si fiondò fuori dal suo ufficio senza avvisare nessuno. Un remake di Terni: si piazzò di fronte a un operaio e ascoltò il dramma di vivere con tre figli, un mutuo da pagare e uno stipendio di 900 euro. Impassibile, se ne sentì dire di ogni anche da altri dipendenti. “Qui non è come da altre parti – gli urlò un sindacalista – le trattative si fanno al Mise, qui oggi si sciopera e non si dialoga”. Prima e dopo quel giorno, le sigle metalmeccaniche l’hanno accusata in diverse occasioni di aver messo in cassa integrazione dalla sera alla mattina, senza che nessuno li informasse. Va detto che Morselli è democratica, perché adottò lo stesso metodo con Giovanni Minoli. Era alla guida di Stream quando, mentre lei ideava il primo home banking attraverso il decoder della pay-tv, lo licenziò in tronco da direttore generale a causa di una cena con i vertici di Telepiù e Adriano Galliani.

I conti tornano?
A volte di fronte alle critiche preferisce ricorrere alle querele, più spesso non guarda in faccia nessuno ed è pronta a controbattere. A settembre scorso, durante il roadshow commerciale con i clienti e i fornitori di Acciaierie d’Italia, ha fatto proiettare su un maxi-schermo il manifesto con il suo volto affisso in città dai sindacati. “La peggiore gestione di sempre”, era l’accusa vergata dai metalmeccanici assegnandole una simbolica medaglia. E lei rispose punto per punto, sorridendo sorniona. Il 2023 è poi finito com’è finito: appena 3 milioni di tonnellate prodotte a fronte delle quattro previste a inizio anno. Ora rischia di essere disarcionata dalla sella, ma non si arrende. Del resto sul suo sito, nel quale parla di se stessa in terza persona, chiude così l’auto-presentazione: “Le aziende vanno difese sempre, a prescindere”. Per questo, c’è da giurarci, resterà sulle barricate per provare a spuntarla un’altra volta. “Siamo vicini a una soluzione”, si è sbilanciata contando su delicati equilibri ed enormi interessi che ruotano attorno a un impianto strategico dal quale dipendono 20mila famiglie. Chissà se i suoi conti torneranno. Può capitare anche ai migliori matematici che alla fine non quadrino.

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