Conosco dei papà che hanno potuto vivere a pieno i primi mesi di vita della loro bimba perché durante la pandemia hanno perso il lavoro.

Conosco dei papà che ci sono riusciti perché lavorano con partita Iva e hanno assunto la decisione difficile di non fatturare per alcuni mesi.

Conosco dei papà che, godendo di un contratto stabile e tutelato, hanno scelto di mettere insieme permessi e ferie e usarli per crescere il loro bambino.

Conosco invece papà che non potevano assentarsi dal lavoro e si sono persi tutto questo.

Purtroppo, conosco ancora mamme che, godendo di un salario più basso del partner, hanno accettato di lasciare il loro impiego per restare a casa e occuparsi dei figli.

Conosco papà e mamme che avrebbero voluto condividere il lavoro di cura fin dai primi momenti e non hanno potuto farlo, perché la nostra legislazione lo considera ancora a tutti gli effetti un compito esclusivo delle madri.

Conosco anche papà che – purtroppo – sentono che il loro compito è sostanzialmente un altro e credono di avere un ruolo marginale nella relazione con i figli. A volte è una scelta meschina, altre solo un senso di disagio a cui mancano tanta esperienza e tanta educazione sentimentale.

Soprattutto, conosco e so di tantissime donne a cui, durante un colloquio di lavoro, viene chiesto se hanno figli, se intendono averne, addirittura se in quel momento si trovano in stato di gravidanza.

Si discute molto di conciliazione, di come sollevare le donne del carico di cura attraverso il welfare, i servizi, in sostanza il sostegno pubblico.

Invece serve cambiare paradigma e mettersi al passo con l’evoluzione del concetto di “conciliazione” in quello di “condivisione”.

È il momento che i partner si sentano a loro volta coinvolti nella gestione della sfera domestica. E servono politiche che incoraggino tutto questo.

Nei Paesi dell’Ocse si affaccia un nuovo modello di lavoro e di famiglia, grazie al progressivo aumento dei livelli di qualificazione femminile: il cosiddetto “Dual Career Family”. Qui, tutti i componenti della famiglia, uomini e donne, desiderano realizzarsi pienamente nel lavoro e al contempo partecipare in egual misura alla gestione, all’organizzazione e alle decisioni che riguardano la vita familiare e domestica. La politica si sta adeguando, sta accompagnando e, se possibile, accelerando questo processo?

In Francia Macron ha fatto sua la proposta di un congedo paritario e retribuito: sei mesi per la madre e altri sei per il padre. In Spagna, nel 2021 sono state istituite 16 settimane di congedo di paternità obbligatorio e retribuito al 100%, ossia le stesse garantite alla madre e non interscambiabili. In Norvegia i padri possono beneficiare di quasi un anno di congedo con 46 settimane pagate al 100% o 56 settimane all’80%. E in Italia?

Prima del 2013 il congedo di paternità semplicemente non esisteva. Ma attenzione, anche quella recentissima conquista fu quasi del tutto simbolica: un solo giorno di congedo obbligatorio, pagato al 100% alla nascita, più due facoltativi. Solo nel 2021 i giorni sono diventati dieci, obbligatori e pagati al 100%, più due facoltativi. Non esattamente uno sconvolgimento dello status quo. A fine 2022, con un emendamento di Alleanza Verdi-Sinistra (Avs) al bilancio accolto dalla maggioranza, il congedo parentale di un mese è stato esteso a entrambi i genitori, in via alternativa, e la sua indennità incrementata dal 30 all’80 per cento.

Tuttavia, lo sappiamo bene, il sesto mese alternativo fra uomo e donna diventerebbe uno strumento realmente interessante se entrambi disponessero dello stesso numero di mesi obbligatori di congedo. Ed è ciò che come Avs proponiamo dal primo giorno di legislatura, con un progetto di legge depositato immediatamente a mia prima firma. Negli ultimi mesi anche Partito Democratico e Movimento 5 Stelle hanno votato e presentato atti in tal senso. L’apertura c’è stata da parte loro verso i nostri atti e viceversa. Ecco perché, come sul salario minimo, sarebbe il momento di avviare un tavolo delle opposizioni che porti a una proposta unitaria.

Congedo di paternità di sei mesi per un periodo continuativo, con indennità al 100%, di cui tre obbligatori e tre facoltativi, da usufruire nell’arco dei primi dodici mesi di vita del bambino. Questa la nostra idea. Cambierebbe in meglio la vita di tutti e tutte. Di chi lo attende e di chi lo teme. Cambierebbe la società, anzi, sarebbe una vera rivoluzione culturale. Renderebbe le donne più libere, gli uomini più consapevoli e – forse – le famiglie più felici. Che cosa aspettiamo?

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