di Susy Matrisciano*

Anche se tutti noi stiamo cercando di buttarci alle spalle il ricordo tremendo del periodo pandemico, credo profondamente che non possiamo esimerci dal porre costantemente una domanda a noi stessi: quali insegnamenti possiamo e dobbiamo trarre da quella triste esperienza?

Dal punto di vista personale ogni singolo individuo immagino stia cercando di darsi delle risposte nel profondo della propria coscienza, ma per quanto riguarda il lavoro, ad esempio, la risposta che arriva dagli addetti è sicuramente evasiva. Prendiamo quella che è stata la modalità organizzativa se vogliamo più rivoluzionaria, nonostante esistesse da tempo: lo smart working, o per dirla correttamente: lavoro da remoto, perché di fatto per essere “smart” questa modalità richiede ancora uno sforzo notevole di cambiamento culturale.

Corre l’obbligo di ricordare che se in pandemia lo smart working è stato utilizzato con la finalità di evitare il contagio e garantire allo stesso tempo erogazione di servizi, questa modalità nasce anni prima (legge n. 81/2017) per consentire quel bilanciamento necessario tra vita personale e lavorativa, sulla scorta di liberi accordi tra le parti. Quello che però non bisogna dimenticare è che lo smart working nasce come modalità “diversa” anche perché improntata più al concetto di raggiungimento di obiettivi e risultati che non al tempo e alla presenza sul posto di lavoro.

Nell’era della digitalizzazione, dell’IA, dell’alto contenuto tecnologico di alcuni settori, della transizione ecologica, cosa succede? Praticamente nulla. E il problema è proprio questo. Nel senso che ci aspettavamo un balzo in avanti, un superamento di quella zona di comfort nella quale spesso ci si trova tanto bene, ma che non ci fa progredire, insomma ci aspettavamo che dalla pandemia alcune storture, se non tutte, emerse nelle politiche del lavoro potessero essere corrette, soprattutto da un governo che non lavora più in emergenza, che non è un governo di unità nazionale che deve portare il Paese fuori da una delle crisi più buie dal dopoguerra. Resta ad esempio la grande differenza tra garantiti e non garantiti, tra lavoratori dipendenti e liberi professionisti, tra lavoratori del settore pubblico e settore privato. E questo avviene sui meccanismi di tutela e garanzia.

Tornando allo smart working, ad esempio, il governo è rimasto in quella zona di comfort di cui parlavamo prima – se non peggio, perché nella legge 191/2023 all’art. 18-bis è stato prorogato dal 31 dicembre 2023 al 31 marzo 2024 il diritto allo smart working nel settore privato per i lavoratori con figli under 14 e per i lavoratori fragili, che risultano essere maggiormente esposti ai rischi del Covid-19. Ma nella pubblica amministrazione non ci sono genitori di figli under 14 o lavoratori fragili, verrebbe da chiedere? Pare di no, perché la norma prevista dal dl Anticipi non sembra riguardare i lavoratori del settore pubblico. E nonostante la Direttiva Zangrillo, con il superamento del principio della “prevalenza della presenza in sede rispetto a quella in lavoro agile”, tentasse di mettere una pezza almeno con i lavoratori fragili, il fatto che il numero di giorni autorizzabili può variare a seconda delle amministrazioni e all’interno di queste anche dei singoli uffici rende molto debole questo diritto, tanto più che la copertura non esiste per il personale scolastico.

Tutto questo per dire cosa?

Che uno strumento che poteva rappresentare un cambiamento culturale nell’organizzazione del lavoro viene adoperato con lo stesso criterio con il quale veniva utilizzato in emergenza quando questa emergenza di fatto non c’è più. E c’è da dire che anche nel settore privato non tutte le realtà sono propense a “concedere” lo smart working. La vera sconfitta sta proprio nell’aver rinunciato a quella svolta epocale: al lavoro per obiettivi attraverso la costruzione di un patto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro, alla possibilità per i genitori di conciliare vita privata e lavoro, ad accompagnare la salvaguardia dell’ambiente attraverso il minor utilizzo delle auto per recarsi a lavoro, a contribuire a ripopolare le aree interne evitando lo spostamento verso la città, a rigenerare spazi pubblici per creare aree di coworking, insomma ad abbracciare l’idea che il lavoro possa essere qualcosa che ci aiuta a vivere meglio.

Continuiamo a pensare che questa opportunità sia ancora possibile, dimostriamo che dalla pandemia qualcosa di buono abbiamo imparato, nei rapporti umani e nell’organizzazione del lavoro.

*HR Manager di una multinazionale del settore metalmeccanico. Senatrice della XVIII Legislatura, ho ricoperto la carica di Presidente della Commissione Lavoro del Senato

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