di Leonardo Botta

È innegabile che Giorgia Meloni si sia guadagnata da tempo fama di politico scaltro e abile nella comunicazione. Doti che le hanno spalancato le porte di Palazzo Chigi con parole d’ordine di sicura presa nel suo elettorato (porti chiusi, abolizione delle accise, flat tax, euroscetticismo), poi smentite da una politica di taglio europeista, che fino a ora ha segnato il passo sulla lotta all’immigrazione mentre sul piano fiscale il suo governo pare aver varato norme abbastanza moderate (in parte in continuità con Draghi) che non hanno destabilizzato la nostra economia (anche se i detrattori l’accusano di aver messo a punto provvedimenti in deficit e incardinati su condoni e concordati che hanno spostato in avanti i regolamenti dei nostri conti).

I più evidenti successi la Meloni li ha mietuti sul fronte internazionale, dove ha mostrato inaspettate capacità diplomatiche, certificate dai buoni rapporti allacciati con i leader del mondo occidentale (Biden e Ursula von der Lyen su tutti) che hanno oscurato le poco europeiste amicizie con Vox, Orban, Bannon. Anche nei rapporti con gli alleati mi pare che se la stia cavando piuttosto bene; l’azione di governo è sin qui stata caratterizzata da un’equa proposizione dei rispettivi cavalli di battaglia: premierato a Fratelli d’Italia, federalismo alla Lega e giustizia a Forza Italia.

Va da sé che uno dei punti di forza della Meloni e del centro-destra è la debolezza delle opposizioni, che spesso si sono affannate a pungolare la premier con critiche impietosamente smontate una per una.

Cominciò la parlamentare Pd Serracchiani che accusava il governo di maschilismo, ricevendo dalla Meloni una sferzante risposta: “Mi guardi, le sembra che io stia un passo dietro agli uomini?”. Miglior sorte non è toccata alla proposta del salario minimo, del quale la premier ha banalmente fatto notare che trattasi di misura che il centro-sinistra si è guardato bene dal promuovere quand’era al governo. Ed è di questi giorni l’infuocata battaglia sull’autonomia differenziata, il cui ddl è stato approvato in Senato contro le feroci proteste della minoranza. Peccato che il via alla riforma Calderoli sia stato dato proprio dalle modifiche costituzionali del Titolo V volute dal centro-sinistra nel 2001 (quando D’Alema strizzava l’occhiolino a Bossi sulla deregulation: “La Lega è una costola della sinistra”).

Eppure, a mio parere, la presidente del Consiglio è tutt’altro che imbattibile sul piano dialettico e priva di contraddizioni. Alcuni episodi lo dimostrano. Mi viene in mente la disastrosa conferenza stampa del governo dopo la tragedia di Cutro, in cui la Meloni sembrava una scolaretta impreparata davanti alle domande dei giornalisti. Oppure l’imbarazzante chiacchierata telefonica con due comici russi spaccatisi per diplomatici africani. O la maldestra invettiva scatenata dalla premier contro Giuseppe Conte, da lei accusata di aver approvato la riforma del Mes da presidente dimissionario e “con il favore delle tenebre”, esibendo un “fax” dell’ex ministro Di Maio che in realtà era antecedente alle dimissioni del governo. Discutibile è stata anche la polemica con la quale la Meloni ha avvertito la sinistra che con lei al potere fossero finiti i tempi dell’“amichettismo”, provocando la replica questa volta di Renzi, che ha ricordato come tale reprimenda provenisse da chi ha nominato la sorella alla guida di FdI e il cognato capo delegazione del governo!

Cito infine lo scontro Meloni-Schlein in Parlamento, che ha registrato il primo, vero punto a favore della leader Pd che ha ricordato alla premier che il tetto alla spesa per il personale sanitario fu introdotto nel 2009, dal governo Berlusconi di cui era ministra. Insomma, la Meloni è brava, ma non infallibile. Lo è ancor meno se si considera la qualità spesso modesta dei suoi funzionari e l’imbarazzo che le arrecano discutibili esponenti politici della maggioranza.

Ciò vuol dire che c’è una seppur flebile aspettativa di vita a sinistra del governo. Ma è dura!

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