Che Stellantis voglia rafforzare la sua presenza in Africa è quasi una non notizia. Lì ci sono già tutte le principali case automobilistiche, da Volkswagen a Renault o Toyota. Il Marocco in particolare è il principale hub africano delle quattroruote, con una produzione di vetture già paragonabile a quella italiana ed una fiorente industria di componentistica che rifornisce stabilimenti pure in Spagna e nel resto d’Europa. Diversi paesi del continente hanno, da anni, adottato politiche tese ad attrarre le case automobilistiche ed hanno iniziato a vietare le importazioni, chiedendo che le vetture venissero costruite in loco. Così, anni fa, Volkswagen ha cominciato a produrre direttamente in Algeria, Renault lo ha fatto in Marocco, dove detiene una quota di mercato del 40%. Nel paese opera anche un sito di Peugeot (altro marchio confluito in Stellantis).

Che il gruppo franco italiano chieda ai suoi fornitori di componentistica di seguirlo in terra d’Africa non significa necessariamente un depauperamento del nostro tessuto imprenditoriale. I fornitori produrranno pure in Marocco ma non solo in Marocco. Anche perché molte aziende della componentistica del Nord Italia hanno strette connessioni pure con l’industria automobilistica tedesca. “Il problema non è tanto che si vada a produrre anche in Africa o in Asia, il problema è che non lo si faccia più in Italia dove metà degli stabilimenti vanno avanti a cassa integrazione”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Giorgio Airaudo, segretario della Cgil Piemonte. “Anche per quello che era il quartier generale di Fca in Europa, ovvero Mirafiori a Torino, non vedo segnali di rilancio ma piuttosto di progressivo ridimensionamento, ormai l’incentivo offerto per lasciare il lavoro arriva a 120mila euro

Benché la faccenda marocchina sconcerti l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (“La fuga dall’Italia continua”), non è certo questo l’elemento che marchia Stellantis come non più italiana. Volkswagen investe in Africa ma resta saldamente tedesca. Quando Fca siglò l’accordo con Psa molti dei commentatori e dei quotidiani salutarono l’operazione come un grande risultato. Osservatori un po’ più attenti segnalarono però, fin dal primo momento, come il baricentro del gruppo fosse chiaramente sbilanciato verso Parigi. Timori che si sono puntualmente concretizzati. La Exor degli Agnelli-Elkann rimane il primo azionista con il 14,3% ma i soci francesi insieme hanno una quota più consistente e, tra di loro, c’è anche lo stato francese con il 6,1%. A guidare il gruppo c’è Carlos Tavares, che era il numero uno della francese Psa. È esemplificativo il fatto che quando il ministro dell’Economia francese convoca un tavolo sul settore a prendervi parte sia sempre Tavares mentre quando a fare lo stesso è l’esecutivo italiano si presentano dirigenti di seconda fila. Gli investimenti per le motorizzazioni elettriche si fanno per lo più in Francia (o in Germania) e solo secondariamente in Italia dove ci sono tante promesse e pochi fatti. Quanto ai profitti, già da tempo, quando ci sono, finiscono in Olanda dove Exor ha sede, lasciando al fisco italiano le briciole.

Nel suo mandato al ministero dello Sviluppo, Calenda, uomo di Luca Cordero di Montezemolo (tra le tante cose anche ex presidente Fiat), ha peraltro sempre avallato il diktat di Torino che per un secolo ha chiuso il mercato automobilistico italiano ai produttori esteri. Così l’Italia è l’unico paese europeo in cui a costruire macchine c’è un solo marchio, prima Fiat, poi Fca e ora Stellantis. E, naturalmente, questo produttore fa il bello e cattivo tempo, oltre ad disporre di un potere ricattatorio abnorme nei confronti dello stato. Le case automobilistiche fanno il pieno di utili ma i governi sono molto generosi. L’Italia rincorre un’Europa che insegue. Gli Stati Uniti hanno varato un ricco piano di incentivi per portare entro i propri confini le produzioni di vetture elettriche, la Cina avanza ed è diventata il primo esportatore di auto al mondo, superando il Giappone. Anni di melina, in cui spiccano quelli riconducibili al ministro Giorgetti, hanno scavato un gap difficile da colmare.

Che così non si possa più andare avanti lo hanno detto per primi i sindacati, auspicando l’ingresso di un nuovo produttore, fosse anche cinese. Un input raccolto dal ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso che pochi giorni fa ha affermato “Stiamo lavorando affinché ci sia una seconda casa automobilistica che possa insediarsi nel nostro Paese per raggiungere l’obiettivo complessivo che ci siamo dati di un milione e 400mila veicoli prodotti in Italia”. Airaudo spiega come non sia certo un segreto che produttori cinesi sarebbero ben contenti di mettere un piede nell’Ue oppure che Tesla vorrebbe aprire un secondo stabilimento in Europa. “L’Italia ha due punti di forza, spiega il sindacalista, lavoratori con grandi capacità ed esperienza, cosa che manca in paesi come l’Ungheria, e un indotto con fornitori di primo livello”.

Ciò che invece manca, rimarca Airaudo, è un piano efficace del governo e alla fine “anche il Pnrr dedica ben poche risorse per lo sviluppo delle motorizzazioni elettriche”. Ad essere sotto pressione, in questa fase, è soprattutto l’indotto visto che Stellantis ha riportato al suo interno molti dei compiti che prima venivano affidati a fornitori esterni. Ora viene loro chiesto di trovarsi soci in Asia e Nord Africa se vogliono continuare a lavorare con il gruppo. Una richiesta analoga è stata fatta anche in Francia ma, nota Airaudo, lì c’è un “limitatore di velocità” che si chiama governo e che in queste dinamiche può sfruttare il peso della sua partecipazione nell’azionariato.

In Italia i tavoli di confronto si susseguono, solo questa settimana ne sono in programma cinque, ma finché il governo non assume un ruolo più attivo, più di tanto non si può fare. In questo scenario si inserisce il battibecco tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e i quotidiani del gruppo Gedi (Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX) che fanno capo ad Exor. Repubblica in particolare ha titolato “Italia in vendita”, riferendosi al programma di nuove privatizzazioni a cui lavora il governo per racimolare una ventina di miliardi in tre anni. Sul mercato finirebbero quote di Eni, Trenitalia, Poste etc. Quando si deve vendere l’argenteria non è mai un bel momento, anche perché, ad un certo punto, i cassetti restano vuoti. Meloni ha però avuto gioco facile a ribattere. Non nel merito ma nel rinfacciare a Repubblica il disimpegno dei suoi proprietari nei confronti dell’Italia. Ma appurato quanto è da tempo sotto gli occhi di tutti, è il caso che il governo inizi a darsi seriamente da fare per dare un futuro al comparto automobilistico italiano.

A difesa del suo primo azionista è sceso in campo anche Tavares. “Abbiamo più di 40mila dipendenti in Italia che lavorano molto duramente per adattare l’azienda alla nuova realtà secondo quanto deciso dai politici sono pieni di talento. Non credo che i dipendenti italiani abbiano apprezzato questo commenti. Non credo che sia corretto nei loro confronti”, ha detto il manager portoghese. L’a.d. di Stellantis ha aggiunto che comunque “Il dialogo con il governo italiano andrà avanti, non c’è nessuna demagogia. Il dialogo è permanente, le discussioni sono continue”. Anche perché “Abbiamo chiesto al governo di sostenerci nella produzione di veicoli elettrici. Vogliamo raggiungere il traguardo di un milione di veicoli prodotti, ma dobbiamo avere sostegni alla produzione. Da nove mesi chiediamo un sostegno per la vendita di veicoli. Vorrei ringraziare il governo che lancerà a febbraio incentivi, ma abbiamo perso nove mesi”. Sull’ipotesi dell’arrivo in Italia di un nuovo produttore, Tavares afferma che Stellantis è pronta a lottare…”ma bisogna pensare anche alle conseguenze di questa lotta”. E poi torchia i fornitori: “La struttura dei costi di un veicolo è fatta per l’85% di componenti che compriamo dai fornitori, quindi i fornitori dovranno ridurre i costi del 40% per consentirci di rendere le auto elettriche disponibili a tutti abbassando i prezzi”.

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