Mirafiori è il più grande complesso industriale italiano. Ospita la fabbrica automobilistica più antica in Europa, oggi solo parzialmente in funzione. Occupa una superficie di 2.000.000 m². Metà inutilizzati.

Forse oggi i più giovani non ricordano che cosa accadde a Torino il 13 gennaio del 2011. Molti, che all’epoca c’erano, sembrano aver dimenticato o preferiscono non rinvangare un passato il cui futuro era già scritto. Quel giorno, l’ad dell’allora Fiat, Sergio Marchionne, impose ai dipendenti di Mirafiori un referendum sull’accordo che avrebbe trasformato la fabbrica simbolo del gruppo nell’avamposto europeo del gruppo Chrysler. Un accordo firmato da Fim, Uilm, Fismic e Ugl, ma non dalla Fiom, che sarebbe stata esclusa dalla rappresentanza sindacale.

120 ore di straordinario obbligatorio, un sistema di turnazioni che avrebbe portato il dipendente a fare sei giorni di lavoro consecutivi con 10 ore per turno, la riduzione di giorni di malattia pagati dall’azienda, la cancellazione di dieci minuti di pausa, clausole con cui i lavoratori venivano dissuasi dagli scioperi, una ferita insanabile della rappresentanza. In sostanza, si trattò di scegliere fra condizioni capestro e la perdita del posto di lavoro. Al termine di una notte di scrutinio che pareva non finire mai, vinse il sì, ma solamente con il 54% dei voti e grazie al contributo decisivo dei colletti bianchi. L’adesione superò il 94,6%, mostrando un’enorme capacità di mobilitazione di lavoratori e lavoratrici e della sigla sindacale nel mirino della dirigenza. Nelle aree operaie che sarebbero state travolte da quella rivoluzione, montaggio e lastratura, i sì e i no quasi pareggiarono.

Furono i rappresentanti sindacali stessi delle sigle firmatarie, all’epoca, a dichiarare che avevano “vinto le ragioni del lavoro”, che da quel sì sarebbe nato “lo stabilimento del futuro”, che ora avrebbe “festeggiato Torino” e che tutti i lavoratori sarebbero stati “tutelati nel loro lavoro in fabbrica e nell’azione sindacale”.

Le parole di Marchionne furono ancora più epiche e altisonanti: votando sì i lavoratori avevano “scelto di prendere in mano il loro destino, di assumersi la responsabilità di compiere una svolta storica e di diventare gli artefici di qualcosa di nuovo e di importante”, con una decisione “lungimirante” che si opponeva “alla rassegnazione del declino”. L’ad, nel preparare quel momento drammatico, aveva promesso piena occupazione, salari più alti e tanti modelli.

Nasce una nuova Fabbrica! Appartiene a tutti noi! Come no… Quello scenario, ormai lo sappiamo, non si è mai realizzato. Quella fabbrica effettivamente apparteneva a molti di noi, esisteva grazie agli sforzi della classe lavoratrice italiana e alle tasse di tanti altri diventate aiuti di Stato consistenti. Della Grande Fabbrica grigia, attorno alla quale per decenni hanno orbitato tutta la città di Torino e i destini produttivi dell’Italia intera, non è rimasto quasi nulla.

La mattina, con i militanti e le militanti di Sinistra Italiana e Sinistra Ecologista, arrivo a distribuire volantini davanti a quelle porte. Come si faceva tanti anni fa. Come abbiamo continuato a fare. La cassa integrazione delle tute blu rende anche i nostri volantinaggi più tristi e più freddi. I lavoratori sono diminuiti ancora, le produzioni sono in calo e – ricordano i rappresentanti della Fiom – la fabbrica che fu aperta come promessa se avesse vinto il sì, la ex Bertone di Grugliasco, è stata chiusa. Venduta su immobiliare.it, come abbiamo raccontato.

Nel corso delle fusioni che hanno trasformato Fiat in FCA e FCA in Stellantis, è continuata la progressiva fuga silenziosa dall’Italia e da Torino di un’azienda che nel nostro Paese continua a ricorrere alla cassa integrazione, nonostante gli utili siano alle stelle: 16,8 miliardi di Euro di profitti nel 2022, in aumento del 26% rispetto all’anno precedente, con utili distribuiti agli azionisti per 4,2 miliardi e neanche un euro di tasse sugli stessi versato in Italia. Stellantis prevede di raddoppiare i propri ricavi netti entro il 2030 proprio grazie al passaggio all’elettrico, ma per l’Italia non esiste alcun piano concreto.

Le scelte di produrre lontano da Torino e dal nostro Paese, nel silenzio dei governi che si sono succeduti in questi anni, stanno producendo uno scenario drammatico: da una parte, la paventata chiusura di aziende dell’indotto automotive (la Marelli di Crevalcore e la Lear di Grugliasco sono solo gli ultimi esempi); dall’altra, il concreto rischio che stabilimenti storici, da Pomigliano a Mirafiori, siano svuotati poco alla volta fino alla chiusura definitiva.

Nel 2023 Stellantis ha annunciato investimenti per lo stabilimento di Torino, ma secondari e marginali rispetto alla produzione e all’assemblaggio di nuovi modelli, che verranno invece costruiti all’estero. Torino è la città più esposta al disimpegno del gruppo.

Oggi a Mirafiori lavorano 12.000 persone, molte delle quali andranno in pensione nel prossimo decennio. I piani di Stellantis – quelli realizzati, come il cosiddetto “hub dell’economia circolare”, e quelli solo promessi, come il “Green Campus” – non prevedono nemmeno una nuova assunzione, ma soltanto lo spostamento del personale attuale. A ottobre a Mirafiori la produzione della 500 elettrica si è fermata per due settimane, così a novembre, con un calo della produzione da 225 vetture assemblate a turno a 170 auto. L’hub dell’economia circolare, in assenza di un piano di nuove assunzioni, non è assolutamente in grado di garantire il rilancio dello stabilimento.

La verità è che, a 13 anni da quel referendum, senza nuovi modelli, senza nuove assunzioni, Mirafiori rischia di chiudere e 12mila posti di lavoro qualificato potrebbero andare persi, insieme all’enorme catena dell’indotto.

Intanto, guardando il quadro più grande si scopre che, nell’autunno del 2023, Stellantis ha inviato una lettera ai propri dipendenti italiani, con un invito alle dimissioni incentivate a 15.000 impiegati e quadri, dimostrando ulteriormente la volontà di ridimensionare la propria presenza in Italia. È solo l’ultimo tassello del piano di incentivi all’esodo con cui Stellantis, nell’ultimo triennio, ha convinto circa 10.000 propri dipendenti in tutta Italia a licenziarsi e “costruire il proprio futuro” lontano dall’azienda. Così, mentre in Europa la produzione e il mercato delle auto elettriche continuano a crescere, in Italia si assiste a un calo costante.

Eppure, la domanda è lecita e martellante: come si pensa di arrivare a un milione di vetture in queste condizioni? Con una Mirafiori ferma a singhiozzo, una Pomigliano in cui non ci sarà la Panda elettrica, una società che ormai produce a Orano (Algeria), Kenitra (Marocco), Tychy (Polonia), Bursa (Turchia), Kragujevac (Serbia)? Come si pensa di gestire il passaggio dal motore endotermico a quello elettrico, senza sapere quali modelli verranno prodotti? Senza avere un piano occupazionale? Come possiamo sentirci al sicuro nelle mani di chi, nell’ultimo triennio, ha abusato di cassa integrazione, contratti di solidarietà, uscite incentivate? Di chi chiede altri incentivi mentre i nuovi modelli elettrici come la Panda volano verso la Serbia?

Nasce da queste domande, dall’urgenza che diventino domande collettive, l’idea di una “marcia per il clima e per il lavoro”, annunciata nella data simbolica del 13 gennaio.
Il 24 febbraio cammineremo intorno a tutto il perimetro dell’immensa “città nella città” che è Mirafiori, per dire che si può e si deve lottare per la piena e buona occupazione nella transizione ecologica dell’economia e del settore automotive. Perché quello che oggi è uno spazio per metà vuoto può e deve accogliere nuove produzioni.

Marceremo per far sì che la 500 elettrica e nuovi modelli vengano prodotti a Torino, perché quei chilometri di Mirafiori possano ancora essere riempiti di politiche industriali. Per dire che non ci rassegniamo a vivere nella capitale della cassa integrazione. Tutti gli attori coinvolti, istituzioni comprese, dovrebbero sentire su di sé la responsabilità verso questo pezzo del nostro mondo. La responsabilità di accompagnare le politiche industriali verso la transizione ecologica, garantendo il mantenimento dei posti di lavoro. L’abbraccio fra le politiche ambientali e quelle industriali è parte del futuro: è la sfida che ci consentirà di non diventare l’ultima ruota del carro in Europa.

Invitiamo tutti e tutte a camminare con noi, insieme ai lavoratori e alle lavoratrici dell’indotto. Invitiamo tutti i parlamentari piemontesi a unirsi. Il governo dei patrioti deve decidere da che parte vuole stare. Noi vogliamo che le auto del futuro siano ancora Made in Italy. Ogni città prende la sua forma dal deserto a cui si oppone, diceva Calvino. La disoccupazione è deserto, Mirafiori è città.

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