Alla fine dell’800, nelle filande torinesi, le operaie lavoravano in media 16 ore al giorno. Con esse i loro bambini. Sarà una legge del 1899 a fissare in Italia il massimo a 12 ore e vietare il lavoro notturno per le donne e i ragazzi dai 13 ai 15 anni. Ma non fu certo una conquista indolore. Anche a quelle donne, e poi agli operai e alle mondine che nel 1906 rivendicavano le otto ore, le imprese rispondevano: “Non possiamo permettercelo”. Eppure quelle otto ore, dopo intense lotte, arrivarono: nel 1919, insieme alla settimana di 48 ore, per i metalmeccanici, nel 1923 per tutte le categorie.

“Non ci possiamo permettere di rinunciare alla forza lavoro dei minori”, non ci possiamo permettere di rinunciare al lavoro di notte, di domenica e di sabato”. Se siamo arrivati a 40 ore settimanali è perché, dagli anni 20 agli anni 70, il movimento operaio ha continuato a mobilitarsi a lottare, incrinando i rapporti di forza esistenti. I sabati e le domeniche, che all’infanzia della mia generazione sembravano un elemento naturale come il ciclo delle stagioni e che oggi per molti e molte sono di nuovo un miraggio, sono stati liberati con dure vertenze. Vertenze sull’orario, vertenze sul salario.

Solo mercoledì scorso, il governo Meloni ha liquidato la proposta di legge sul salario minimo legale, incalzato da quel blocco di potere imprenditoriale che ripete: “Non ce lo possiamo permettere”. Eppure, le opposizioni hanno saputo unirsi e mettere la maggioranza in difficoltà. Se lì fuori, durante il voto, ci fosse stato quel milione di lavoratori che guadagna 5 euro l’ora, per non parlare di tutti i 3 milioni che prendono una paga inferiore ai 9 euro, le cose sarebbero andate diversamente. Anche per questo dobbiamo continuare. Serve credibilità, serve coerenza, ma soprattutto serve un’altra idea di vita.

Per questo lanciamo una sfida a tutte le forze di opposizione: facciamolo di nuovo, facciamolo subito, facciamolo per liberare il venerdì. Prima Lavazza, poi Intesa Sanpaolo, Luxottica, oggi anche Lamborghini: tutte aziende che hanno scelto di sperimentare la settimana corta per i loro dipendenti. Quello tra Lamborghini e i sindacati è un accordo che i lavoratori definiscono storico. Ormai tante imprese, in molti Paesi del mondo, si sono decise ad applicare la “4 Day week” su richiesta dei lavoratori e delle lavoratrici. Forse, superate le resistenze, si sono rese conto che se lo possono permettere. Che anzi conviene: perché implica un risparmio energetico, perché genera pubblicità positiva per il proprio marchio. Che si può essere efficienti e più produttivi lavorando meno ore. Magari proprio perché si è più felici di vivere durante e dopo il lavoro.

Ed è una vera rivoluzione silenziosa quella che sta avvenendo nelle coscienze di chi lavora, soprattutto delle generazioni più giovani: il desiderio di meno lavoro e più tempo, più spazio per la vita privata, per la socialità, per le proprie relazioni e passioni. Quale è l’alternativa? Lavorare troppo o troppo poco? Arrivare a casa tardi e ordinare a cottimo uno stramaledetto hamburger e, anziché dormire, spegnersi davanti a una serie tv pensando che quella sia vita?

La pandemia, che ha imprigionato in casa molti e lasciato tanti altri esposti, a lavorare in condizioni di insicurezza e con carichi insostenibili e mal retribuiti, ha accelerato un’assunzione di consapevolezza: non ne vale la pena. Non vale la pena di rischiare così tanto per così poco, o semplicemente non vale la pena di prendere treni, macchine, autobus per tumularsi in un ufficio a svolgere mansioni che si possono eseguire con lo stesso profitto da casa, tenendo in equilibrio vita privata e lavorativa, risparmiando tempo e denaro. Il fenomeno delle “grandi dimissioni” comincia prima, ma diventa imponente in quel passaggio cruciale.

Tuttavia, già da alcuni anni uomini e donne, ragazze e ragazzi soprattutto, cominciavano a licenziarsi perché non più disposti a tollerare paghe da fame, assenza di prospettive, scarse tutele e molte umiliazioni. Secondo i dati Inps, nei primi tre mesi del 2022 il tasso di licenziamento è stato superiore del 35% rispetto al primo trimestre del 2021 e del 29% rispetto al primo trimestre del 2019. È una risposta al “non ce lo possiamo permettere”: se voi non potete permettervi di assumerci con un giusto compenso, per noi non vale la pena di lavorare in condizioni di sfruttamento.

Purtroppo, per tutti coloro che lasciano ce ne sono almeno altrettanti che devono accettare. Per tutti loro era urgente la legge sul salario minimo legale. Tuttavia oramai, sempre più, questi lavoratori invisibili, sfruttati, minacciati, insorgono. La vita vale più di un lavoro schifoso. Lo sa chi lascia e lo sa chi rimane. E una società giusta dovrebbe garantire un lavoro dignitoso mentre al contempo restituisce più vita.

D’altra parte, questo non è solo un bisogno individuale, ma collettivo: vari studi dicono che i progressi della robotica e delle intelligenze artificiali nel 2050 avranno estromesso dal lavoro un quarto della popolazione. Come potremo gestire il cambiamento senza redistribuire occupazione, ricchezza e tempo? Dobbiamo poter immaginare che queste tecnologie siano ciò che libererà le nostre ore e le nostre giornate, aiutandoci a lavorare meno tutti e tutte, perché l’alternativa è una distopia peggiore di quella in cui stiamo già vivendo.

Lavorare meno, ma anche meglio, come diceva il compianto Domenico De Masi. Perché “i soldi non si fanno con le ore lavorate ma con la ricchezza prodotta”, e per avere idee “c’è bisogno di studio e di tempo libero”. Ridurre l’orario a parità di salario, riprenderci la dignità del lavoro ma anche quello spazio, sempre più grande e prezioso, che è il “non lavoro”. Un’ora alla volta, ancora una volta, si può.

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