Uno dei peggiori difetti di chi parla di scuola è la semplificazione e la superficialità mentre uno dei peggiori vizi di chi vive nel mondo della scuola è la mancanza di parresia, la franchezza, il diritto-dovere di dire la verità. È di queste tre malattie che sono rimaste prigioniere le parole di Ernesto Galli della Loggia che in una recensione apparsa sul Corriere della Sera commentando il libro Una scuola esigente di Giorgio Ragazzini, ha scritto: “Nelle aule italiane, caso unico al mondo, convivono regolarmente accanto a ragazzi cosiddetti normali, ragazzi disabili con il loro insegnante di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp (Piano didattico personalizzato) e, infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiaccicare una parola di italiano. Il risultato lo conosciamo”.

Galli della Loggia che, con ogni probabilità, non entra in una classe della scuola dell’infanzia o primaria o alle secondarie di primo grado da anni, nei panni di docente, e che non so quante volte abbia vissuto, visto, osservato con i proprio occhi ciò che accade in un’aula dove è presente un ragazzo disabile e un insegnante di sostegno, ha azzardato dei giudizi, nemmeno supportati da dati. Giudizi – a mio avviso – fin troppo ovvi da cadere nella banalità quando, invece, il tema inclusione va considerato nella sua complessità.
E’ come se un maestro di scuola primaria si mettesse a fare analisi storiche al posto di uno storico.

Ciò ha innescato un’alzata di scudi da parte di chi si è sentito legittimamente offeso che risente del vizio che dicevo sopra. Chi ogni giorno con professionalità o meno entra in classe e siede per ore accanto a un ragazzo disabile si è risentito; chi ha un figlio disabile e prova ogni istante a costruire inclusione, ha percepito le parole di Galli della Loggia come un pugno nello stomaco.

Non possiamo non ricordare all’editorialista del Corriere della Sera i tanti successi che la scuola italiana ha raggiunto con la Legge 517 che aboliva le classi differenziali e con la Legge 104/1992 sull’inclusione. Quando chi scrive frequentava le elementari, in questo Paese, si diceva ancora: “A scuola c’è un bambino mongolo”; a quei tempi (anni Ottanta) la maestra di sostegno era una sorta di “missionaria”. Fortunatamente la cultura è cambiata, persino il linguaggio, anche l’attenzione per l’inclusività ha fatto passi da gigante: la diversità ha cominciato a diventare risorsa, ricchezza, apprendimento reciproco, esperienza di solidarietà. Detto ciò non possiamo nascondere – le gravi criticità che della Loggia accenna, seppur in maniera troppo superficiale – del nostro sistema scolastico.

Qualche settimana fa, proprio su questo blog, riportavo dei dati non delle opinioni. Secondo il sondaggio nazionale “Inclusione scolastica: un valore irrinunciabile?” fatto dalla Erikson che ha raccolto le risposte di 3.137 tra insegnanti, educatori, pedagogisti, assistenti sociali, neuropsichiatri infantili, genitori di persone con disabilità ed esperti del settore, oltre quarant’anni di scuola inclusiva non hanno reso l’Italia un Paese più inclusivo. A fare questa dura affermazione è stato il 40% degli intervistati. Non solo. Il 47% ha pensato che nel lavoro quotidiano una vera inclusione non sia fattibile e il 42% che l’attenzione positiva all’inclusione sia calata nel tempo.

Uso le parole che ha adoperato Dario Ianes, professore ordinario di Pedagogia dell’inclusione della Libera Università di Bolzano e co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento, per commentare il sondaggio: “La dimensione valoriale e ideale dell’inclusione è ancora fortissima, ma calandosi nella realtà operativa delle scuole, giorno dopo giorno, si accumulano difficoltà concrete che alimentano uno scetticismo sempre crescente, che arriva a punte di quasi la metà del nostro campione. Campione, tra l’altro, di insegnanti motivato e autoselezionato. La percezione di irrealizzabilità e di utopia sta crescendo, in parallelo con l’indebolimento delle relazioni di collaborazione tra scuola, famiglie e servizi sanitari e sociali”. Scrive Gordon-Gould e Hornby in Inclusion at the crossroads: “Lungi dall’essere un modello che altri Paesi potrebbero emulare, il sistema educativo inclusivo italiano è un esempio di come la pratica dell’inclusione possa essere inefficace, se non addirittura controproducente, rispetto al suo scopo essenziale”.

Torno ai dati che ha raccolto Erikson perché parlano da soli. Nessuno mette in dubbio il valore dell’inclusione, nemmeno chi scrive: il 96% afferma che l’inclusione sia un valore per ogni alunno, indipendentemente dal suo grado di disabilità ma i problemi ci sono e per troppo tempo si è messa la sabbia sotto il tappeto. In caso di un disabile grave “quasi un insegnante su quattro, crede nell’utilità dell’aula di sostegno per la maggior parte del tempo”. Nel caso di un alunno con disabilità grave quasi una persona su tre è scettica: il 27% del campione crede che l’inclusione non sia la scelta migliore, il 73% invece la ritiene una buona scelta.

Quando si tocca più da vicino l’esperienza concreta di lavoro con alunni/e con disabilità grave, la percentuale di chi non ritiene fattibile una vera inclusione va al 47%, quasi la metà del campione, e soltanto una maggioranza risicata (53%) pensa che invece sia fattibile. Il campione esaminato si divide a metà su questa affermazione: “Le etichette di natura biomedica o normativa (Bes, Dsa, 104, ecc.) in ambito scolastico sono controproducenti perché portano alla stigmatizzazione”. Il 52% le ritiene controproducenti mentre il 48% non ne vede il pericolo (il 48%).

Da maestro ho conosciuto docenti di sostegno preparati, professionali, capaci di apportare valore alla Scuola ma anche docenti di sostegno che non ne sapevano nulla di autismo o di down e si improvvisavano tali; docenti di sostegno che avevano bisogno loro di supporto; famiglie straniere che firmano piano didattici personalizzati in lingua italiana senza che sia loro spiegato di che si tratti; bambini abbandonati nelle mani di educatori ad personam nelle ore in cui lo Stato non garantisce il sostegno. Non solo. E’ incauto e riduttivo, oggi, inserire dietro la parola disabile ogni disagio trattando il tutto alla pari: un bambino psichiatrico non ha sempre le stesse esigenze di un autistico così come quest’ultimo non ha sempre quelle di un down e via dicendo. È vero, l’inclusione è un mito ma anche il giornalismo fatto con approfondimento non scherza.

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